martedì 16 dicembre 2008

Katyn di Andrzej Wajda

Nel 1990, durante la perestroika di Gorbaciov, un breve comunicato della Tass, l’agenzia di stampa russa, comunicò che la strage di quindicimila ufficiali polacchi (espressione dell’élite intellettuale e parte della classe dirigente del paese), avvenuta nel 1943 nella foresta di Katyn in Bielorussia, nei pressi di Smolensk, era opera della polizia segreta di Stalin, quando per quasi cinquant’anni quel massacro era stato addebitato alle truppe naziste che avevano invaso la Polonia.
Le ragioni dell’eccidio compiuto dai sovietici risalgono al 23 agosto del 1939, quando i rispettivi ministri degli Esteri della Germania e dell’Urss, Ribbentrop e Molotov, avevano sottoscritto un patto di non aggressione, che aveva come obiettivo la spartizione tra le due potenze del territorio polacco.
E qui, con l’ingresso in Polonia delle Panzer Division hitleriane e dell’Armata Rossa (con al seguito una retroguardia di sgherri della polizia segreta di Berija e Merkolov, luogotenenti di Stalin), inizia “Katyn”, il bel film di Andrzej Wajda, grande regista di capolavori quali “L’uomo di marmo” e “L’uomo di ferro”.
La pellicola è stata presentata fuori concorso alla 26.ma edizione del Torino Film Festival, svoltasi dal 21 al 29 dicembre nel capoluogo piemontese.
Nella prima sequenza si vedono due folle di persone che da un lato e dall’altro attraversano un ponte, convinte che sulla sponda opposta del fiume ci sia una possibilità di salvezza. Come le due schiere dei prodighi e degli avari dell’inferno dantesco, le due masse in fuga si scontrano, urlandosi reciprocamente da quale esercito nemico stiano fuggendo: gli uni dagli invasori russi, gli altri dagli scherani tedeschi. A questo punto panico e sgomento ghermiscono donne e uomini senza via d’uscita. Una donna, accompagnata dalla piccola figlia, come una Madame Courage va cercando il marito, capitano dell’esercito polacco, fatto prigioniero dai russi e in attesa di essere deportato. Il film che, come afferma il regista polacco, è “la storia di una famiglia separata per sempre”, descrive con lucidità e un forte impatto emotivo le vicende di alcuni protagonisti, soprattutto donne, nella loro estenuante e angosciosa attesa di notizie sui propri mariti, padri e fratelli. C’è la moglie del capitano che per lunghi anni, anche immediatamente dopo la fine della guerra allorché la Polonia è nel blocco comunista, attende invano il ritorno del marito; c’è la sorella di una delle vittime (un ingegnere aereo), partigiana della lotta antinazista, che vuole mettere una lapide sulla tomba del fratello con la data reale della morte e che per questa ragione verrà arrestata; c’è il figlio di un altro ufficiale che subito dopo la guerra vuole vendicare la morte del padre e che per questo andrà incontro a un tragico destino.
Al termine del film, a schiacciarci contro lo schienale della poltrona e a toglierci il respiro, scorre una raccapricciante sequenza, accompagnata da una musica dall’afflato religioso e dalla recita del padrenostro, scandito verso per verso dai deportati polacchi che, uno alla volta, vengono fatti scendere da un camion, strattonati in uno scantinato e giustiziati con un preciso colpo di pistola alla nuca. Questa tecnica di annientamento degli avversari era tipicamente tedesca e da parte sovietica doveva costituire un vero e proprio stratagemma nel contesto di una tragica messinscena, ordita dai funzionari dell’NKVD (Commissariato del Popolo degli Affari Interni), per far sì che la data dell’eccidio fosse fatta risalire al 1941, allorché la Bielorussia era ancora sottoposta al dominio della Wehrmacht tedesca. Questo falso storico fu smascherato da una commissione di studiosi polacchi e russi, quasi mezzo secolo dopo, esattamente l’anno successivo alla caduta del muro di Berlino.
Un film assolutamente da vedere quando e se uscirà nelle sale cinematografiche, perché getta luce su un episodio, mistificato e insabbiato durante la Guerra Fredda, esclusivamente per spregevoli ragioni di propaganda.
P.S. A proposito di Guido Crosetto, sottosegretario della Difesa per il PDL, che ha polemizzato contro la “scelta ideologica di aprire il festival con quel film contro Bush” (n.d.r. “W” di Oliver Stone), lo inviterei ad andare, appena possibile, a vedere “Katyn”, affinché possa capire che anche un Festival “ideologico” (a suo dire) come quello di Torino è capace di ospitare opere, in grado di esplorare la verità storica, non in modo ideologico o strumentale,ma semplicemente nella convinzione che la storia possa avere una funzione catartica e rendere più liberi.

1 commento:

scrivano ha detto...

"Il sonno della ragione genera mostri. (Goya)"

Spero anche io che il film esca presto, intendo vederlo con la famiglia.

c. scrivano