
Si chiamava Paolo come suo nonno, così io mi chiamo Gregorio come suo padre. Nell’albero genealogico della nostra famiglia, infatti, per più di un secolo questi due nomi si sono alternati, di generazione in generazione. Mio padre era Paolo Quinto. Scherzando, dicevamo che a lui era subentrato Paolo Sesto, poi diventato papa. Orfano di guerra, partì all’età di tredici anni da un paese di montagna delle serre calabresi, da dove si vedeva il palpito di un mare distante. Un paese arretrato che viveva degli stenti dei campi aridi e della magrezza dei lombi di qualche gregge solitario. I miei antenati erano commercianti di olio e madonnari – costruivano statue di madonne e santi. Quando arrivò a Torino, andò ad abitare in una pensione di via San Secondo e si fece subito amare per i suoi modi gentili ed educati. Volle bene alle ragazze di Torino e ne fu ricambiato. Alla vigilia della guerra fu assunto alla Fiat Avio, dove avrebbe lavorato per quarant’anni come operaio specializzato. – montava impianti idraulici sugli aerei.
Dopo il 1943, dovette scappare per evitare la deportazione in Germania. Nel 1945 sposò Maria Teresa, mia madre. Lo fece per amore, ma anche per assecondare la volontà della mamma, a cui poco piacevano le donne del nord, perché, a suo giudizio, avevano modi di vita sregolati e troppo spregiudicati. Classe 1920, mio padre è appartenuto a quella generazione che, forse più di ogni altra, ha contribuito a costruire questo Cristo di paese. Ha vissuto gli anni del boom economico: segno di quegli anni e del piccolo benessere raggiunto fu l’acquisto, prima della 500, poi della 127. Insieme, poi, abbiamo vissuto tutte le contraddizioni degli anni Sessanta: padre e figlio, eravamo su fronti opposti. C’era tra noi l’incomunicabilità della parola e del linguaggio, anche se sapevamo che senza parole e linguaggio non esistevamo come noi stessi. Lui non riusciva a percepire la svolta di quegli anni; io, con la presunzione della mia generazione, mi illudevo di dare forma ad un nuovo mondo, come se bastasse inventarsi un sogno per vivere nella terra promessa.
Mio padre era un grande uomo, un uomo di cuore. Accogliente, disponibile e generoso. Ne sono testimoni i tanti ospiti che negli anni sono entrati a casa nostra. Era un raffinato commensale: buoni sapori e vini corposi.
Mio padre era anche un grande giocatore di carte. Era la sua passione, tipica delle genti meridionali. Trascorreva parecchie ore con le carte in mano, ma non ha mai fatto nulla alla famiglia. Mi piace ricordare un aneddoto che ben descrive il suo animo nobile e imprevedibile da poeta estemporaneo della vita. Anno 1961. Con altre due famiglie eravamo andati a Saint Vincent per una gita domenicale. Avevamo fatto un picnic sull’erba. Scomparve d’improvviso, senza dire una parola, quasi in modo sgarbato, per poi ricomparire con un enorme vassoio di paste fresche alla crema.
Era andato a giocare al Casinò, aveva vinto a baccarà e aveva voluto condividere con tutti la gioia del momento.. Mio padre, ormai stanco di una malattia che l’aveva logorato e consumato negli ultimi anni, se n’è andato serenamente nell’aprile del 2002. Aveva accanto una donna straniera. Mia madre era nell’altra stanza. Avrebbe voluto che le dicesse un’ultima parola, ma ad accogliere l’ultimo battito di ciglia, l’ultimo sospiro e a ricevere un baciamano, da quel gentiluomo qual era mio padre, è stata Maria della Transilvania. Sì, mio padre è stato un buon padre. Non so se sono stato capace di ricambiarlo con altrettanto amore. Qualche senso di colpa mi accompagna ancora. Nei suoi confronti ho intessuto la solita trama di tradimenti e inganni, delusioni e piccole vigliaccherie, riscattata qua e là da qualche soddisfazione. Spesso mi fermo a pensare, a fare i conti con i rimorsi, i ricordi e i rimpianti accumulati come valigie di cartone nelle notti buie dell’anima.
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