Mi piace guardare passare i treni. Fin da bambino, quando abitavo nella periferia torinese, non lontano dalla stazione del Lingotto. Mi appostavo sul cavalcavia di ferro e guardavo i treni che andavano verso sud e quelli che tornavano a rifiatare sui binari di Porta Nuova, trasportando persone e storie. Lo stesso faccio adesso dietro il cimitero, poco dopo la gora, quando insieme al cane vado a passeggiare da quelle parti. Guardo i treni passare e, nella corsa dei vagoni che si sovrappongono l’uno all’altro, cerco di catturare il mistero dei viaggiatori che si nasconde dietro i vetri: volti, movimenti e sguardi.
Come guardare scorci di vita dal buco della serratura. Bene, ultimamente, alcune immagini, per me significative, si sono riprodotte attraverso il gioco della luce degli affetti e dei sentimenti su determinate sostanze della realtà quotidiana. Come se avessi intercettato quelle immagini da un treno in fuga. Hanno trovato posto in un album esclusivo e adesso il dispositivo della mia scrittura cerca in qualche modo di renderle visibili per sottoporle al giudizio dei lettori.
Porta Palazzo, venerdì santo, ore quattordici. I commercianti stanno ritirando le loro merci e gli attrezzi. Quando, all’improvviso, come lazzari comparsi dal nulla, a piccoli gruppi, donne e uomini, soprattutto provenienti dai paesi dell’Est, si aggirano tra le bancarelle alla ricerca di qualcosa da mangiare. È un popolo affamato. Un uomo e un ragazzo attirano la mia attenzione. Forse un padre e un figlio. Il primo con il volto emaciato e la barba incipiente; il secondo dai tratti delicati dell’adolescente imberbe. Sono entrambi strampalati, ma hanno una loro dignità. Il ragazzo, d’improvviso, si getta sotto un banco di frutta e verdura, là dove c’è un mucchietto di mele scartate dal fruttivendolo. I frutti hanno già i segni della decomposizione. Li tasta con cura per saggiare se c’è ancora un po’ di polpa biancastra e zuccherina; poi, se l’esame è positivo, infila le mele in una specie di tascapane che porta a tracolla.
Un quarto d’ora dopo, presso l’area del parcheggio, altre donne e altri uomini, esseri derelitti, si apprestano ad eseguire il rito del “buco”. Mi avvicino all’auto: un ragazzo, seduto su un gradino tra il parapetto del controviale e le macchine parcheggiate, si volta verso di me. È diverso dagli altri. Elegantemente vestito, sembra un impiegato di banca nell’ora di pausa. Lo sguardo vuoto di chi frappone tra sé e gli altri un’incommensurabile distanza. Resto immobile, come incantato. Non so che fare. Il giovane uomo scarta una siringa monouso, poi, laccio emostatico un po’ sopra il gomito, freneticamente pizzica una vena non troppe volte martoriata. L’ago è infilato. Un colpo di stantuffo e via ad un fremito di felicità per endovena. Un rivolo di sangue che non vedo. Comincia il bel viaggio verso i deliziosi orizzonti di qualche paradiso artificiale. Pover’uomo, dov’è il sorriso indulgente di Dio?
lunedì 13 ottobre 2008
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