venerdì 12 dicembre 2008

Su ridestiamoci, che il nostro cuore vuole peccare (da Litania di P.P. Pasolini)

Aveva conosciuto Myriam Glykerman al Torino Film Festival che si teneva ogni anno in autunno. Lei partecipava alla sezione cortometraggi con un piccolo film in 16 millimetri, intitolato “Le pantin et le flûtiste”. Erano sedute accanto durante la proiezione di alcuni film di Kiéslowski degli anni settanta, inseriti nella retrospettiva sulla scuola polacca di Lodz.
Era stata Myriam a rivolgerle la parola nell’intervallo tra un film e l’altro. Portava in testa un cappellino nero da cavallerizza e aveva unghie laccate in blu cobalto. Le aveva chiesto informazioni su un indirizzo. In città abitava uno degli ultimi superstiti del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. A questi doveva fare un’intervista per conto di uno studioso di storia contemporanea: un docente della Sorbonne di Parigi che da qualche anno stava raccogliendo nei paesi europei le testimonianze degli ultimi sopravvissuti per dare alle generazioni future tutte le prove dell’esistenza dello sterminio. Aveva accumulato una montagna di documenti, oltre un archivio filmato di testimonianze di ex deportati. Contro le folli tesi dei revisionisti. Da quando era in pensione si era ritirato sulle coste bretoni e nella sua grande casa conservava tutto il materiale. Lea se la cavava abbastanza bene con la lingua francese, avendola imparata da un pastore valdese. Dove lavorava era lei l’inteprete ogni volta che c’erano problemi di comunicazione con gente del Magreb o del Corno d’Africa.
Myriam aveva proposto a Lea di accompagnarla. Vi erano andate il giorno dopo, ma a quel recapito erano venute a sapere che l’uomo, grande testimone della deportazione e infaticabile cultore della memoria dei lager, era morto di cancro da più di un anno. Durante la rassegna avevano assistito insieme alla proiezione del film di Myriam. Un musicante, davanti ad una casa, suonava il flauto traverso. Una melodia suadente, trascinante, che catturava uno per volta passanti solitari. Ad uno ad uno entravano dentro la casa e non vi uscivano più. Myriam spiegò che si trattava di un aggiornamento della storia del Leviatano, che ai giorni nostri può vestire i panni di un politicante, di un presentatore televisivo o anche di un uomo delle assicurazioni. Il cortometraggio fu accolto abbastanza bene dal pubblico, ma non vinse nessun premio.
Myriam, alla fine del festival, aveva accettato l’invito di Lea e si era fermata per qualche giorno a casa sua. Così erano diventate amiche. Da allora, almeno una volta il mese, si sentivano al telefono oppure si scrivevano. Myriam in quel periodo stava lavorando per la televisione ad un documentario sul degrado delle periferie francesi. Lo spunto era stato dato dalla notizia di un ragazzo della banlieu che aveva ucciso a coltellate il suo insegnante, colpevole soltanto di avergli inflitto una punizione qualche tempo prima. Le due amiche erano entrate in gran confidenza. Myriam non perdeva occasione di parlare dei suoi amori che lei definiva rohmeriani, perché ognuno di essi era impostato su questo o quel proverbio. Nell’ultima telefonata, in primavera, le aveva confidato che aveva appena consumato una storia del tipo “non c’è regola senza eccezioni”. Disse che si trattava di una relazione che aveva tutti i presupposti per durare nel tempo. Lui era il classico bravo ragazzo, architetto di belle speranze, neanche troppo bello. Forse anche un po’ banale, con tanti progetti nella mente. Poi la storia aveva preso uno sviluppo imprevisto. Myriam avea finito per innamorarsi di un altro ma senza successo. Da quando tutto era finito si sentiva senza testa. Come una di quelle statue che, decapitate da un atto violento, sono custodite nelle teche di vetro di un museo per preservarle da altre mutilazioni. Ecco, allora Myriam viveva al riparo. Per quanto riguardava Lea, nonostante le sue innumerevoli cellule nervose, aveva ben poco da raccontare.
Myriam l’aveva invitata nella sua casa delle vacanze in Bretagna. Aveva accettato per non correre il rischio di restarsene in città a guardare i cormorani sul fiume e film già visti nella rassegna di cinema all’aperto. Avrebbe potuto rispondere all’annuncio di un certo dottor Carlo che aveva rotto con la fidanzata e, per fargliela pagare, stava cercando una ragazza da portarsi in vacanza ai Caraibi. Tutto spesato. Oppure, alternativa più drammatica, di finire da suo padre in montagna. Eccola invece, a fine estate, a Quiberon, una sottile lingua di terra srotolata sull’oceano a sbertucciare le tempeste. Myriam a Parigi era venuta ad aspettarla alla stazione, l’aveva ospitata nel suo piccolo appartamento del Quartiere Latino. Poi, la mattina dopo, erano partite in macchina alla volta della Bretagna. Patty Smith rediviva andava bene da ascoltare mentre percorrevano i lunghi saliscendi della Normandia. Anche Enya dalle cento voci con le sue melodie celtiche. Fecero solo una sosta per uno spuntino e poi a perdifiato fino alla costa selvaggia in faccia all’oceano.
Myriam aveva una graziosa casetta con il giardino e il tetto d’ardesia, in un agglomerato di villette tutte uguali, su un promontorio affacciaot sul mare. Dovevano dividere la stanza. Erano anni che Lea se ne stava al calduccio, tenuta a balia da una solitudine riottosa, sia pure con Nanà la gatta complice dei suoi soliloqui, e non fu facile all’inizio della convivenza quella sorta di cameratismo, ma dopo pochi giorni era riuscita, superata ogni titubanza, a spogliarsi davanti agli occhi della sua ospite con naturalezza. Myriam era completamente diversa. Se lei era come murata dentro di sé, l’altra era disinvolta, piena di finestre e spifferi. Combattiva, attenta ad ogni cosa che accadeva nel mondo, compiva qualsivoglia gesto e atto come se fosse il più normale. Era impertinente come Nanà. Anche nelle movenze aveva un che di felino. Era straordinaria con la videocamera digitale in mano che portava con sé ovunque andasse. Completamente identificata con l’obiettivo. Si serviva di quella protesi elettronica per secernere la sua visione del mondo. Lea si schermiva da quegli attacchi insidiosi con lo sfogo benefico dei suoi rossori. Ma Myriam non cedeva, anzi, più il soggetto era in difficoltà più incalzante era l’assedio.
“E’ il terzo occhio, il mio indispensabile occhio magico!”.
E le spiegava che, guardando attraverso l’obiettivo, riusciva a cogliere meglio il senso delle cose, nonché i sentimenti inespressi delle persone. Come se spiasse attraverso il buco della chiave.
“Non c’è strumento migliore per conoscere le persone, anche se queste per natura tendono a mettersi in posa o sulla difensiva. La gente non è come sembra. Ad esempio, dentro di te c’è un fuocherello sopito pronto a divampare”.
Quindi le spiegava le sue teorie fisionomiche con l’ausilio del lettore, attraverso la visione rallentata del dvd e il fermo immagine.
“Guarda i tuoi primi piani”.
“Non mi piace molto vedermi”.
“Anch’io ho un certo disagio quando mi rivedo in qualche ripresa, per il semplice fatto che non mi riconosco o non voglio riconoscermi”.
In quel momento bucava lo schermo il primo piano del volto di Lea. In realtà non era altro che un lungo piano-sequenza. L’aveva fatto Myriam al risveglio, il giorno dopo il loro arrivo, negli interni di casa, mentre la sua ospite impacciata si spostava da un ambiente all’altro e lei le girava intorno senza tregua. L’ossessionava seguendola ovunque.
“Tu non riesci a identificarti in quell’immagine, perché quella che vedi sullo schermo è un falso. Sono io l’artefice di quell’immagine, di quel frammento di realtà che ho composto secondo un particolare taglio di tempo e di spazio. Tu hai confidenza solo con l’immagine che più volte nella giornata vedi riflessa in qualche specchio delle tue brame. Ma anche ciò che vedi allo specchio non è altro che un mondo rovesciato. Quel grazioso neo che hai all’angolo della bocca, tu sei abituata a vederlo a destra, mentre io lo vedo a sinistra. Qual è il giusto punto di vista?”.
Per tutta la sera non fece altro che parlare d’estetica e di semiologia. Le sue parole tracimavano dagli argini della bocca come le acque di un’esondazione. Un’orgia parolaia che, senza farle titillare il martelletto dell’apparato uditivo, le stava frastornando il cervello. Myriam parlava, parlava, parlava in una chiacchiera sempre più futile. S’interruppe soltanto quando si accorse che la sua compagna faticava a seguirla. Lea, infatti, aveva cominciato a sbadigliare. Temeva d’averla offesa, ma Myriam non se l’era presa più di tanto.
“Non ti preoccupare! Hai tutta la mia comprensione. Purtroppo, come ha detto un musicologo di cui non ricordo il nome, le orecchie non hanno palpebre. Qualche volta perdo il senso della misura. Parlo, finché, il mio interlocutore con uno sbadiglio o una frase di circostanza non mi fa capire che è meglio smetterla”.
Risero insieme e si abbracciarono.
Tutti i giorni andavano al mare. Là dove l’oceano, ripiegando come una coperta rimboccata, scopriva una lunga estensione di sabbia, che si riempiva immediatamente di windsurf da spiaggia, aquiloni e cercatori di conchiglie.
“Forse dovrò andare via per qualche giorno”, le disse Myriam un pomeriggio, mentre erano intente ad aver cura dei fiori del suo piccolo giardino. Una strana malattia, il male bianco, stava scolorando e atrofizzando le foglie delle piante di rose. Alzò gli occhi verso di lei e l’espressione del suo viso tradusse immediatamente lo stato d’animo di quel momento.
“Non riesco a capire perché mi hai invitato se già sapevi che dopo pochi giorni avresti dovuto svignartela?” - protestò.
“Mi dispiace lasciarti da sola. So di non essere una buona padrona di casa. Abbandonare l’ospite pochi giorni dopo averla accolta è contro ogni elementare regola di ospitalità e cortesia. E tu fai bene ad avercela con me, ma se mi ascolti forse riesci a capirmi”.
Cominciò a raccontare di Jacob col quale aveva stretto un patto prima di partire per la Bretagna. Se l’uomo avesse telefonato, lei avrebbe dovuto raggiungerlo là dove fosse e stare con lui qualche giorno o poco più. Pian piano lo sgomento iniziale di Lea si trasformò in complicità e non ebbe più nulla da dire sul suo tradimento.
“Qual è la morale di questa storia?”.
“Tieni le mani in tasca se non vuoi che le metta qualcun altro”.
Credette di avere capito quello che intendeva e non fece altre domande. La loro conversazione poi si trasferì nel soggiorno davanti a due Pernod allungati in acqua ghiacciata.
“Jacob è felicemente sposato”.
“Immaginavo che ci fosse qualcosa di strano”.
“Già! Adesso basta parlare di me. Tu parli sempre poco di te stessa. Possibile che tu non riesca a scioglierti con me? Credevo fossimo diventate amiche!”.
“Non ho molte cose da raccontare. Poi amo molto di più ascoltare la vita altrui che parlare dei fatti miei”.
“Non so nulla dei tuoi fidanzati!”.
“Hans, si chiama Hans”. Si precipitò a dire in un’unica emissione di
fiato. Pronunciò quel nome come se fosse la cosa più naturale del mondo. Di nuovo Hans. La sua immagine galleggiava dolcemente sulla superficie della sua anima come un relitto. Perché l’aveva chiamato in causa anche in quell’occasione? Per impedire a Myriam di investigare oltre nella sua insignificante vita sentimentale, o perché davvero aveva condiviso il destino di Hans, da quando per la prima volta aveva visto la sua fotografia inserita nella pratica Bauer in ufficio. Hans era vivo, l’aveva resuscitato. Prima s’era inventata sua amica per carpire i segreti della sua vita dalla voce della signora Bauer e adesso addirittura era diventata sua amante.
“Ognuno di noi rispetta le libertà dell’altro. Io non so dove sia Hans in questo momento e lui non sa nulla di me, ma quando ci vediamo siamo felici di stare insieme”. Continuò a mentire spudoratamente. Myriam la guardò con sospetto.
“E’ un amore di testa o di stomaco?”.
Le chiese mettendole una mano appena sopra l’ombelico.
“Non capisco la domanda”.
“Come fai a stare lontana da lui?”.
Lea non fu capace di rispondere, anche perché aveva sempre timore di forzare troppo l’impostura. Quante volte si era chiesta se sarebbe stata degna di un individuo come Hans! A lei piaceva vivere rannicchiata nel grembo di giorni e ore sempre uguali. Lui disposto a far le bucce al futuro pur di non farsi scorticare. A vivere al limite, a mettersi sempre in discussione, pur nella logica di un’ideologia estrema. Certo avrebbe desiderato un compagno come Hans. Avventuriero, fuorilegge e terrorista. Un guastatore che sobillasse i suoi giorni sempre uguali. Allora si sentiva come gli abitanti della greca Alessandria che dagli spalti della città aspettavano l’arrivo dei barbari che finalmente avrebbero messo a ferro e fuoco la monotonia dell’ordine costituito. Non li temevano, solo agognavano una nuova rinascita. Per togliersi dall’imbarazzo, era corsa a prendere la fotografia di Hans, il suo ritratto a trent’anni che le aveva dato la madre, e che portava sempre con sé come un santino.
Anche Myriam fu piacevolmente colpita dalla bellezza del suo volto.
“Brava Lea! Adesso capisco perché non dici niente, hai paura che ti portino via un tale tesoro. Sai, mi ricorda Gerard Philipe. Che bel faccino angelico!”.
Già anche lui, breve come un sospiro.
Myriam doveva partire col primo treno del mattino. Destinazione: ritorno a Parigi. Si svegliarono insieme, Lea preparò la colazione. Succo d’arancia, fette biscottate e due tazze di caffè lungo. Myriam non parlò molto quella mattina. C’era qualcosa che non andava e non sapeva dire cosa. Aveva avuto una notte agitata, e Lea più volte l’aveva sentita rivoltarsi nel letto. Tra loro si svolse un dialogo ridotto all’osso.
“Che aria depressa!”. Myriam tacque.
“A che ora c’è il treno?”.
“Tra mezz’ora”.
“Allora sbrigati, altrimenti lo perdi”.
“Non ho più tanta fretta di partire”.
Sembrava pentita di dovere sempre obbedire senza battere ciglio alla volontà del suo amante. Aveva il presentimento di una catastrofe.
“A volte ho la sensazione di correre a vuoto. E’ tutta colpa del mio stomaco e dei suoi borborigmi!”. Un sorriso coscienziosamente forzato diede al suo viso un’espressione malinconica
“Vedrai, andrà tutto bene”. Poi l’accompagnò alla stazione. Disse che le lasciava la macchina come risarcimento, o come una sorta di pegno.
Appena rimasta da sola, Lea se ne andò al molo a vedere i pescherecci rientrare al porto, staffette i gabbiani con le loro gole aperte in rauchi gridi. Le ali lievemente inarcate sottovento, pronti a fiondarsi sugli scarti di pesce che i marinai gettavano in acqua. Il mare scintillava sotto i raggi del sole che aveva fretta di togliersi di dosso la sua buccia d’arancia. Era ancora presto e cominciò a passeggiare per il paese lento a svegliarsi. Arrivò fino al centro di talassoterapia e poi tornò indietro destando la sospetta curiosità dei pescatori intenti a sistemare le reti, di fronte ad una villeggiante mattiniera.
Appena a casa si mise a girare per le sue stanze linde. Almeno per qualche giorno sarebbe stata lontana dagli sguardi della telecamera, pensò. Ma Myriam già le mancava. Insieme alle sue parole e ai suoi pensieri. Come un visitatore calmo che si guardi intorno senza smania, si mise ad osservare un quadro di grandi dimensioni sopra il camino, raffigurante alcune pescatrici di ostriche tra gli scogli. Le piaceva guardare e toccare gli oggetti, accarezzarli, sentirne le scanalature e i rilievi. L’afferrabilità.
C’erano alcune cineserie: Myriam le aveva raccontato di un nonno viaggiatore, ingegnere aeronautico che negli anni Trenta aveva lasciato la Francia e la famiglia, e si era trasferito in Cina dove s’era messo a vendere i suoi progetti ai signori della guerra del Kuomintang. Là si era arricchito, ma poi erano arrivati i giapponesi ed era finito in un campo di prigionia. Alla fine della guerra, era tornato a casa senza il becco di un quattrino, portandosi dietro un bauletto decorato con motivi di giada. Dentro c’erano un servizio da tè di porcellana minuziosamente dipinto, due piccole tele verticali, esempi di tecnica a “pennellata abbreviata”, con figure di uomini e di animali che, a quanto ne sapeva Myriam, avevano un significato ritualistico e simbolico, e alcuni libri in inglese sull’arte cinese. Fiotti di luce inondavano gli interni: sbiadiva il bianco e nero di alcune fotografie di famiglia appese alle pareti. Restò ancora un po’ in piedi e poi tornò a dormire. Fu la telefonata di Myriam a svegliarla nel tardo pomeriggio. Era arrivata a Parigi. Sembrava di nuovo piena di allegria e vivacità, ma non aggiunse altro.
L’indomani s’imbarcò sul traghetto per andare verso l’isola. Accanto a lei erano seduti i componenti di una strana famiglia. Marito, moglie, la sorella di lui, il figlio adottivo della coppia. I due fratelli di taglia forte sembravano un gigante e una gigantessa redivivi da qualche leggenda nordica. Mangiavano con avidità panini americani a più strati. Lea, adolescente anoressica, da quando era guarita da quella strabiliante malattia, avevo cominciato ad avere in odio tutte le persone pappa e ciccia. Provò un senso di ripugnanza. Mentre la moglie, un’esile donna, tenendosi stretto il suo bel bambino indiano, lo riempiva di coccole. Vicino a lei, un giovane medico, che andava a prendere servizio alla condotta sanitaria dell’isola, conversava con un ipocondriaco che continuava a chiedergli informazioni sui sintomi della sua gastrite. L’uomo era ormai convinto di avere un brutto male incurabile e non c’era verso di fargli cambiare idea. Il medico tentava di rassicurarlo, dicendogli che era un semplice disturbo della digestione, ma il malato immaginario, sentendosi alla fine, aveva deciso di trasferirsi sull’isola per morirvi.
L’isola col suo lungo profilo cominciò a trasparire dietro le nebbie del mattino che andavano man mano dissipandosi, come se fosse affiorata da un mondo abissale. Poi il traghetto entrò nell’imboccatura del porto, a ridosso della fortezza che si stagliava sul mare come un transatlantico di roccia, con la prua puntata in alto prima di inabissarsi. Oppure una nave pronta per essere varata. Sui torrioni della cittadella erano rimaste impigliate alcune nuvole che coprivano il sole. Faceva freddo, ma Lea decise ugualmente di noleggiare una bicicletta. Zainetto in spalla, con dentro la colazione e un asciugamano per un picnic sulla spiaggia, si mise in viaggio per l’isola. Sentiva un fremito di delizia al vento della corsa. Da tanto tempo non si era sentita così libera, la stessa sensazione che aveva provato nei giorni in cui salava la scuola. Pedalava con tranquillità lungo sentieri polverosi, tra i campi coltivati, le greggi al pascolo e qualche cavallo allo stato brado. Voleva arrivare dall’altra parte dell’isola, sulla costa selvaggia. Lungo la strada incontrò altri villeggianti in bicicletta. Sembrava che andassero tutti nella medesima direzione. Verso il mare come i lemming in una delle loro migrazioni periodiche. Uscì dal gruppo e deviò verso un sentiero laterale, infilato come un dito nodoso e rigido dentro un boschetto di oleandri, allontanandosi sempre più dai percorsi che bordeggiavano la costa. La stradina sembrava non portare da nessuna parte. Intorno a lei i colori della terra: una tavolozza di gialli, rossi, violetti, arancioni. Qua e là macchie di vegetazione: tremiti di scarlatto, ocra e turchino. E le tinte pastello delle case. Sentivo dentro di sé una strana voglia di perdersi. Dopo pochi chilometri, sbucò in un piccolo villaggio dell’entroterra al di là degli alberi. Non molto lontano da un piccolo campo di aviazione per aerei da turismo. Appoggiò la bicicletta ad un muretto di pietra e si sedette su un terrapieno per riprendere fiato e fare riposare le gambe. Poi si distese sull’erba per vedere il cielo. Il cielo di Bretagna che una volta al telefono Myriam le aveva descritto come una cupola michelangiolesca. Così tersa che affacciati alle sue balaustre si potevano vedere gli angeli. A Lea sembrava fosse fatto a strati. Nuvole corsare scorrazzavano tra cielo e mare. La nuvolaglia diede l’assalto all’isola. Si mise a piovere. Staffili lucenti. Una donna con uno scialle tirato sulla testa, facendole ampi gesti, la invitò a ripararsi dentro la sua casa di pietra azzurrognola. Sistemò la bicicletta sotto il pergolato, vicino alle gabbie dei conigli, e seguì la donna.
“Qui il tempo cambia in fretta. Capricci del vento. Un mattino sgombro di nuvole può preludere alla bufera. Viceversa, quando all’alba il cielo è grigio, nel pomeriggio quasi certamente c’è un sole radioso. In questa stagione è il vento dell’ovest che porta la tempesta”.
“Quanto potrà durare?”.
“Un po’!”.. Lea si mostrò preoccupata.
“Se dovesse continuare, potete fermarvi qua”.
“Devo restituire la bicicletta”.
“Può farlo mio marito quando torna. Adesso non vi dovete preoccupare. Siete in buone mani. Tutto si può risolvere. Quando si ha un problema è come trovarsi all’interno di una camera chiusa. Tenti di uscire dalla finestra. Non è possibile, è troppo alta. Allora cerchi un varco attraverso il camino, ma il condotto è troppo stretto. Che fare? A questo punto ti guardi intorno, solo in quel momento ti accorgi che per tutto il tempo le porte erano aperte”.
Raccontò l’aneddoto con l’accento ruvido dei bretoni. Lea disse di essere italiana. La vecchia le fece i complimenti perché parlava bene la sua lingua. Poi le preparò una tazza di tè e tagliò una fetta di crostata di pesci.
“E’ fatta con filetto di persico, salmone, e pesce bianco. Ci sono anche dei gamberetti”.
“E la salsa?”.
“Zafferano, polpa di astice e purea di patate”. La salsa homardine.
“E’ ottima, madame...”.
“Madame Kerneis...Béatrice Kerneis”.
Tornò il marito dai campi, fradicio come un pesce appena tirato dall’acqua. Lea strinse una mano avvizzita, ma ancora forte. Fatte le presentazioni, l’uomo si scusò con l’ospite e salì al piano di sopra per cambiarsi d’abito.
“Anch’io sono un buon cuoco”. Disse quando ridiscese tra le due donne.
“Non lo metto in dubbio”. Rise la moglie, facendo l’occhiolino a Lea.
“Italiana?”. Chiese rivolgendosi a Lea, che rispose con un cenno di assenso con la testa
“Conosco la vostra lingua perché l’ho sentita tante volte parlare da parte di gruppi di turisti”.
“Fa freddo fuori! Perché non accendiamo il camino?”.
Il padrone di casa andò a prendere un po’ di legna e accese il fuoco. La moglie riordinò la cucina. Il fuoco piano piano si affievolì, ma nella stanza si sentiva già un caldo tepore. La signora Kerneis con un rametto a forcella si mise a tracciare sulla cenere strani segni: spirali come i movimenti sinuosi di una serpe e anelli concentrici come i cerchi di un’acqua morta lievemente increspata.
“Ho scritto un augurio di buona fortuna in un’antica lingua celtica che parlavano i nostri vecchi”. Poi col palmo della mano scompigliò quei crittogrammi di oscuro significato.
“Maman Kerneis sa fare sortilegi!”. Madame Kerneis scoppiò a ridere. Un’altra risata delle sue che, quando si spezzavano, si traducevano in bizzarri squittii.
“Fermatevi da noi. C’è la camera degli ospiti. Fino a qualche anno fa era la camera di nostro figlio, ma un giorno è partito e non è più tornato. Odiava la nostra isola e tutti quelli che vi abitavano e arrivavano. L’ultima volta ci ha scritto dall’Inghilterra. Ironia della sorte. Un’altra isola, soltanto un po’ più grande”.
Lea decise di accettare, perché non se la sentiva di imbarcarsi col mare un po’ troppo sulle sue. Quando poi non c’era nessuno ad aspettarla. Si sedettero vicino al camino. Il marito partì col furgone per restituire la bicicletta al noleggio davanti al porto. Madame Kerneis andò nella camera vicina e dopo un po’ ritornò completamente cambiata. Sopra un abito nero indossava una pettorina gaiolata dai vivaci arabeschi. Un’ampia gorgiera la faceva rassomigliare alla stravagante monaca di un film felliniano, mentre la cuffia un po’ ricamata, un po’ plissettata, da cui era sfuggito un ciuffo disordinato di capelli grigi, ne faceva il soggetto di un ritratto di qualche pittore di Pont-Aven.
“Questo è il costume tradizionale della Cornovaglia” - disse con un certo orgoglio - “Lo indosso nelle grandi occasioni”.
Lea si sentì lusingata dall’accoglienza. Rientrando, il marito rimase di stucco.
“Oggi facciamo festa in onore della nostra ospite”.
Andò a prendere una bottiglia di liquore fatto in casa.
“Chouchenn. E’ idromele fatto con sidro e miele. Assaggiatelo! Chi ne beve parla come un poeta!”. Lo versò nei bicchieri e poi cominciò a raccontare.
“Basta con la storia della caccia al lupo! L’hai raccontata tante di quelle volte!”. Sospirò.
“Già, ma Mademoiselle l’italienne non l’ha ancora ascoltata”.
“Va bene, ti ascolto. Vecchio Henrik Kerneis, sei testardo come un mulo!”.
Madame Kerneis strizzò l’occhio verso Lea, alla quale sembrò che ancora una volta, seppure con una certa rassegnazione, si disponesse ad ascoltare il marito. Si sfilò gli zoccoli e poggiò i piedi sul ripiano di pietra intorno al camino.
“Grace de Dieu!”. Si limitò a dire.
“Lo sapete che quando, durante la guerra, i tedeschi sbarcarono sull’isola e si installarono a Port-Coter, sul punto più alto, anche un vecchio lupo, venuto da chissà dove, forse buttato via dal suo branco, girava da queste parti. Per quanto assurdo possa essere, un lupo era padrone dei nostri campi. Qualcuno diceva che l’avevano portato i tedeschi su un biplano dalla Finlandia per farci ancora più paura. Altri che era fuggito dai regni di Brocelianda...”.
“La foresta di re Artù”.
“Esattamente! Lo sapete anche voi!…”.
“Ho abitato nella terra degli occitani”.
“Aveva attraversato il mare e aveva fissato la sua monarchia sull’isola. Qualcuno addirittura pensava che si trattasse di un lupo mannaro. Erano tante le storie che circolavano. Poi, alcuni pastori cominciarono a lamentare stragi di pecore e agnelli nei propri greggi. A quel punto decisero di rivolgersi a me, Henrik Kerneis, l’unico cacciatore che c’era sull’isola”. Disse come un soldato smargiasso.
“Gli abitanti dell’isola sono pescatori, nati con i piedi nell’acqua. Io sono un uomo di terra, un contadino. Da sempre preferisco la caccia e spesso sbarco sul continente nella stagione propizia. Ma era tanto tempo che non sparavo un colpo. Lo schioppo, pur se ben custodito nello stipo, aveva ormai preso polvere e ruggine. La pelle fulva dell’ultima volpe uccisa, pregna degli umori mutevoli delle stagioni, sventolava ormai come un vessillo logoro e scolorito sulla tettoia del capanno degli attrezzi”.
“Dapprima mi tirai indietro, soprattutto perché era imminente il parto di Béatrice e io non volevo assolutamente mancare alla nascita del primogenito. D’altro canto l’orgoglio non mi consentiva di rinunciare se volevo arricchire di nuove imprese la mia leggenda di cacciatore. Così mi lasciai convincere confidando che fosse un affare di breve tempo. Béatrice non ebbe nulla da ridire”. Madame Kerneis annuì.
“Beatrice tornò per un po’ di tempo alla casa del padre. Così ripresi in mano il mio fucile e per renderlo di nuovo efficace ne lubrificai l’anima con olio di tartaruga che mi avevano regalato alcuni pescatori appena tornati dall’Africa”.
“C’era il coprifuoco. I tedeschi, temendo uno sbarco degli alleati, sorvegliavano l’isola in ogni anfratto. Era pericoloso, ma uscii lo stesso. La notte era un calice senza stelle. La luna navigava altrove. Avevano avvistato il lupo vicino alla Pointe des Poulains. La quiete dell’isola, sulla costa est, era solo insultata dal latrare dei cani del guardiano del faro. Suonò l’allarme. Gli abitanti dei villaggi vicini erano corsi a rifugiarsi nei fossati che avevano scavato fuori dai paesi. La luce del faro cominciò a frugare il cielo in ogni direzione. Arrivarono le Vedove Nere, le fortezze volanti americane, ma si disinteressarono completamente della nostra isola. Non aveva valore strategico. Come api solerti gli aerei avevano fiutato altrove un nettare più prelibato. Sul continente le città e i porti erano fuoco e fiamme”.
“Mi dimenticai del lupo e restai tutta la notte acquattato nel mio nascondiglio dietro uno spuntone roccioso. Il cielo tornò tranquillo e gli abitanti dei villaggi rientrarono nelle loro case. Mi misi a perlustrare la zona fino agli scogli cercando le tracce del lupo. Poi decisi di aspettare. Non volevo tornare a casa senza la pelle del predatore. Volevo regalarla a mio figlio. All’alba il cielo s’accomiatò dolcemente dal sodalizio con la notte. Ero in trepidazione per Béatrice”.
“Grace de Dieu!”, commentò Béatrice.
Monsieur Kerneis parlava come un poeta. Con un istinto vitale, che veniva rigenerato ogni volta che aveva davanti a sé un uditorio, sapeva impreziosire il suo discorso di metafore.
“Mi raggiunsero alcuni abitanti di Kerdavid e di altri villaggi, dicendomi che il lupo si aggirava nell’entroterra. Mi accompagnarono in camion là dove era stato avvistato. Poi mi lasciarono da solo. Non volevo nessuno con me, mi avrebbero dato soltanto fastidio. Con una trappola rudimentale sepolta nel fogliame catturai alcuni capi di selvaggina. Piccoli roditori e lepri. Poi sventrai gli animali e ne bagnai con cura i corpi nel loro stesso sangue ancora caldo in modo che il lupo fiutando nella direzione del vento fosse trafitto dagli aculei di quella fragranza. Aspettai un’ora e ancora un’altra ora. Ma non accadde nulla”.
E giù un altro bicchiere di idromele.
“Salii su una collina scoscesa e mi sistemai in modo tale che il frugare del vento non tradisse la mia presenza. Da lì con binocolo mi misi a scrutare tutto il pianoro sottostante, dal bosco dei lecci fino al mulino di Philibert Borgeaud. Aspettai pensando al figlio che sarebbe nato entro pochi giorni. Non avevo dubbi che dai lombi forti di Béatrice sarebbe venuto alla luce un figlio maschio”. Nel frattempo, accarezzandosi la barba bianca, guardava Béatrice con una tenerezza commovente e la donna era ancora capace di arrossire agli sguardi innamorati dello sposo.
“Grace de Dieu!”.
“Lo sapevamo entrambi. Madame Cachelin, fornaia e fattucchiera, una donna grassa come un otre aveva mandato Béatrice, già incinta di qualche mese, ad attingere l’acqua al pozzo con un secchio e l’aveva istruita in modo che, appena vi fosse giunta riempisse d’acqua il secchio e quindi senza voltarsi se la versasse alle spalle...”.
“E’ tutto vero! Mentre facevo tutto quello che mi aveva detto Madame Cachelin, passò da quelle parti Thierry...”.
“Thierry chi?”.
“Thierry Matignon, il pastore di Gouastin. Credendomi in difficoltà, volle darmi una mano. Madame ne aveva tratto che avremmo avuto un figlio maschio come l’uomo che mi aveva visto al pozzo con la pancia grossa”.
“Sino al tramonto non vidi nulla. Poi, ecco, lo vidi ad occhio nudo. Veniva avanti con un’andatura sbilenca, dietro l’inquietudine della fame. Tutto tacque. Il vento, il cielo, il mare. L’aria cessò di respirare. Dai rami gli uccelli spiccarono il volo, come se gli alberi se li fossero improvvisamente scrollati di dosso. Era un lupo grigio. Macilento e affamato. Si fermò e cominciò a torcere il muso da una parte e dall’altra, l’olfatto teso a fiutarsi intorno. Dalle narici usciva un fiato umido. Annusò qualcosa. Si avvicinò alla trappola. Dentro una gabbia di legno avevo messo un coniglio vivo”.
Monsieur Kerneis si alzò dalla poltrona e comincio a camminare su e già per la stanza. Adesso si mise a far la parodia di ogni scena che descriveva. Lea e Béatrice ascoltavamo impassibili.
“Imbracciai il fucile con il colpo in canna. Presi la mira con attenzione, cercando di far collimare il mirino sull’estremità della canna con l’alzo del fucile. Il cuore batteva forte. Come un martello teneva il mio corpo inchiodato a terra. Ero piuttosto eccitato e avevo paura di sbagliare. Con il dito sul grilletto, aspettai prima di sparare. La mano doveva essere assolutamente ferma. Il lupo cominciò a frugare tra le frasche e i ramoscelli, poi li sbatacchiò via e con furore si avventò sui corpi, molli come tuorli, uncinandone le teneri carni con unghiate feroci. Il coniglio cominciò a girare su se stesso con piroette forsennate. Il lupo sospinse da una parte la gabbia, la scoperchiò come una scatola. I vari pezzi caddero a terra come un castello di carte. Il piccolo animale tentò di scappare, ma il lupo con una zampata lo fece stramazzare. Gli affondò le zanne. Dall’involto scucito e straziato uscirono viscere ancora calde e sgorgarono fontanelle di sangue. Poi, alla fine del pasto, con una semplice torsione della zampa scaraventò via la buccia che fece una parabola forsennata fin quando l’arco teso dell’orizzonte di quel misero proiettile andò a morire in un brulichio vermiglio nel boschetto di lecci”.
Era un sapiente cantastorie, un vero e proprio maestro nell’arte della parola. Sapeva dosare gli effetti per rendere più avvincente il racconto.
“Grace de Dieu! Mio caro Enrik, c’est fini?”.
Ecco, tese il braccio, simulando il momento del colpo fatale.
“Sembrava che il lupo avesse placato la sua insaziabile fame, sia pure con un pasto modesto. Si mise a pisciare tutt’intorno per marcare i confini del suo territorio. Poi si sdraiò sulle zampe posteriori nel baricentro dell’isola. Si sentiva sovrano dell’isola. Fu allora che sparai. La pallottola sibilando squassò il silenzio. Trapassò l’aria con tutta la sua irruenza e andò a colpire il fianco esposto del lupo. L’animale guaì per il dolore, urlò per la rabbia, ma non morì. Almeno non morì subito. Strascicando il suo corpo ferito andò a rifugiarsi nel bosco. Scesi precipitosamente già dalla collina con un nuovo colpo in canna. Seguii la scia di sangue. Ma non riuscii più a rintracciarlo. Era scomparso in una cattedrale di nebbia. Da allora non ne abbiamo saputo più nulla. Il suo corpo non è mai stato ritrovato”.
“Grace de Dieu! C’est fini! Perdonami Enrik, ma continuo a pensare che quello fosse solo un povero cane randagio”.
Poi, volgendosi verso Lea, aggiunse:
“Il nostro è stato un matrimonio felice, anche se Enrik è un gran bugiardo!”.
Il vecchio bellilois, di fronte allo scetticismo della moglie, ebbe un moto di stizza. Béatrice da parte sua si limitò a sigillarne gli umori dentro l’urna incolmabile dei suoi rassegnati benedicite. Forse la tempesta che infuriava, forse quello che aveva bevuto l’avevano messa in un particolare stato di eccitazione. Andarono a dormire, ma non riuscì a prendere subito sonno. Le girava un po’ la testa. Nel dormiveglia fece uno strano sogno. Sognò un cavallo correre attraverso solitudini conosciute, luoghi ricorrenti nella geografia dei suoi viaggi notturni. Ecco che d’improvviso da un arbusto di rampicanti di madreselva sbucò una serpe lattaria che con un guizzo si avvolse come un vilucchio attorno ad una delle zampe anteriori del cavallo, arrivando a morderlo alla congiuntura del garrese. L’animale s’impennò disarcionando il cavaliere. Questi aveva il volto di Hans, di suo padre, di Erasmo Terrasanta, del giovane Kerneis, che tramutavano prodigiosamente l’uno nell’altro. Poi sognò l’enorme bocca del lupo che le alitava sul collo, mentre acque apocalittiche inondavano la terra. Si svegliò di soprassalto. Nella stanza degli ospiti al piano rialzato. Nella casa di pietra del piccolo villaggio. Sulla piccola isola del grande mare oceano. L’indomani Monsieur Kerneis l’accompagnò al porto. La rappresaglia di cielo e mare era cessata. Promise di tornare a far visita ai suoi ospiti prima di partire per l’Italia.
Nel tardo pomeriggio salì sul traghetto del ritorno. Appena a casa, mise in funzione la segreteria telefonica. C’era un messaggio di Myriam che, in lacrime, le diceva di andarla ad aspettare alla stazione. Sarebbe arrivata in serata.
Andò alla stazione ad aspettarla. Quando scese dal treno aveva grandi occhiali neri calcati sul viso. L’abbracciò con calore, ma non disse una parola.
“La casa non è mai stata così in ordine! Non sarai per caso andata a dormire in albergo?”.
“No, sono stata all’isola. Volevo fare un picnic sulla spiaggia. Poi c’è stata una tempesta e una coppia di vecchi bellilois mi ha ospitato. Se hai voglia di ascoltarmi, ti racconto quello che mi è successo”.
Myriam si tolse gli occhiali scoprendo occhi gonfi di pianto.
“Più tardi, adesso ho solo bisogno di farmi una doccia”.
Tutte e due stanche, dopo avere bevuto un punch caldo, si ritrovarono a letto. Myriam, pallida e dolente, si tenne stretta all’amica tutta la notte. Mentre Lea, senza sapere perché, prima di addormentarsi ricordò la frase che le aveva detto Terrasanta alla fine del loro incontro. Il vecchio amico si sentiva come se, uscito di corsa da casa, fosse immediatamente rientrato per riprendere qualcosa che aveva dimenticato. Quella notte, probabilmente, l’avrebbe chiamato forte per nome.


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