giovedì 26 febbraio 2009

Dal Lingotto di Torino alla nuova Fiera di Roma: andata e ritorno del PD

La settimana passata sono stato a Roma per affettuoso dovere filiale e casualmente vi sono capitato nei giorni dell’assemblea nazionale del partito democratico che avrebbe dovuto decidere in che modo proseguire la sua storia, dopo le dimissioni di Veltroni Anche in quel caso, come nella periferia piemontese, il quesito è stato: primarie sì o primarie no? Sabato 21 febbraio sono uscito di casa presto, nell’aria fredda di una nuova primavera che anche nella capitale tarda a venire. Era l’ora in cui grappoli di stranieri, clandestini e non, nell’Italia delle ronde e dell’afasia vaticana, si spulciano di dosso i torpori della notte accumulati in qualche anfratto catacombale e vanno a posizionarsi su qualche centimetro di terra benedetta, sui sagrati delle chiese, nei mercati rionali, nelle stazioni del metrò, per tendere la mano a conca e raccogliere una mezza cucchiaiata di misericordia cristiana. Ma dove è finita questa virtù? Forse nell’ordalia fascista che nel pomeriggio di sabato ha infestato le vie del centro della città eterna, a difesa dell’identità italiana dagli stupri barbari. Nobile gesto, ma perché strumentalizzare le violenze sessuali a pretesto di un identitario odio razzista e non volgere il proprio sdegno contro ogni sorta di violenza e sopraffazione nei confronti delle donne, perpetrata anche da parte degli stupratori di razza nostrana? Orribile il loro manifesto che invita al corteo, a colori stinti, secondo le gradazioni cromatiche dei B-moovies anni ’70: una donna in veste bianca, raffigurata dalla cintola alle gambe piegate di sghembo. Una macchia color prugna in un’ansa della veste, tra le gambe. Mentre percorrevo la città a piedi, su altri manifesti, color azzurro cupo, sedicenti militiate Christi invitavano il presidente Napolitano a dimettersi, in quanto reo di avere avallato l’omicidio di un’innocente (Eluana Englaro). Ho attraversato le tante rome, prima a piedi, poi in metropolitana, infine in treno, prima di arrivare alla terra promessa del Partito Democratico. Le rome papalina, ministeriale, felliniana, caciarona e plebea. Quest’ultima ben rappresentata da un uomo, vestito di nero, modello grande fratello, che scende dall’auto lasciandola in mezzo alla strada, sputa cerchiando l’aria con uno zampillo quasi giottesco e scompare, indifferente, per le vie del mondo. Finalmente sono arrivato alla nuova Fiera di Roma, ancora in costruzione, in una sorta di landa deserta, tra strutture in acciaio e cemento. Dove rari sono i segni di vita, se non nella pletora dimezzata (dei 2384 delegati di diritto che costituiscono l’assemblea nazionale, alla drammatica chiamata del partito hanno risposto circa 1300), che aspettava l’apertura dei cancelli. La musica da camera di Ludovico Einaudi fluttuava distorta nella cattiva acustica di un ampio e freddo padiglione. Qua e là capannelli di delegati formavano i follicoli delle tante conventicole dentro un polmone che fatica a respirare. Le parole, pur disorientate e confuse, cercavano di colmare le distanze di una comunicazione asfittica. Che fare? Direbbe Lenin. Che farebbe ognuno di loro, se qualche dirigente sapesse cosa estrarre dal cilindro del cappellaio matto? Finalmente iniziava la cerimonia, ben scandita dalla voce sonora e seducente di Anna Finocchiaro: prima si sarebbe deciso se fare o no le primarie (già sentito in qualche ombelico del mondo!), poi si sarebbe votato il nome del nuovo segretario (non pro tempore, non reggente, ma ben legittimato dall’assemblea dei delegati). Il dibattito è stato serrato, come di solito avviene in ogni assise democratica e non là dove c’è un unico dominus. Alla fine del primo tempo, anche dopo la contestazione di un chiassoso gruppo minoritario che reclamava a gran voce le primarie hic et nunc, ha preso la parola Dario Franceschini e pronunciato un bel discorso, non mieloso, non buonista, ma volto ad ancorare il partito su alcuni capisaldi (l’azzeramento degli organi dirigenti veltroniani, una personale ed esclusiva selezione dei collaboratori, che non sia il solito risultato di laboriose mediazioni e veti incrociati, un antiberlusconismo fecondo e non di facciata, infine rispetto e non sudditanza nei confronti delle invadenti gerarchie cattoliche anche sulle questioni bioetiche). E ha promesso un gesto simbolico assai significativo in questi giorni di oscurantismo dei diritti: il giorno dopo sarebbe andato (come ha fatto) nella sua Ferrara a giurare - sul luogo dove nella lunga notte del ’43 furono uccisi dai fascisti tredici cittadini innocenti - su una vecchia copia della Costituzione che gli avrebbe consegnato nelle mani suo padre, vecchio partigiano.
C’è stato spazio anche per i soliti leader vanitosi e autoreferenziali a cui piace porgersi alle carezze digitali di tele e fotocamere. C’era anche Bersani il democratico che ha sfidato Veltroni - l’ultimo fattore in ordine di tempo che, insieme alla sconfitta elettorale in Sardegna, alle vendette incrociate, all’antibuonismo, ai rutelliani in odore di centro, ha dato il fatale colpetto, facendo precipitare giù dalla torre l’ex segretario Veltroni (ricordate Villaggio-Fantozzi quando, sci a piedi, precipita come un rotolone Regina dalla china nevosa, dopo essere stato spinto dal solito collega dispettoso!).
Passando come un curioso e invisibile portinaio, tante sono state le frasi colte al volo nel continuo flusso interiore di quella massa democratica e logorroica stipata nel padiglione delle cerimonie.
“Che…! Cosa vuol dire azzerare gli organi dirigenti? È solo demagogia!”, urlava al cellulare un delegato toscano, sostenitore del congresso subito.
“Io, disabile su carrozzella, non vorrei scambiarmi con nessuno di voi…” Questo il pronunciamento orgoglioso di Ileana Argentini, ex consigliere delegato per le politiche sull’handicap nella Giunta Veltroni, che ha aggiunto a proposito del “giovanilismo di parata”: “Conosco giovani ventenni, trentenni, che mostrano le stesse estenuanti ambizioni dei vecchi dinosauri della politica”. “Non c’è stato nessun coraggio sulle primarie da parte di nessuno!”, da un’altra voce in un crocchio di chiassosi delegati di Caserta,
Ormai il brusio tendeva a stemperarsi nell’attesa del verdetto finale. è giunto dopo sei ore di dibattito: Dario Franceschini segretario con 1047 voti contro Arturo Parisi (92 voti), che ha coerentemente condotto la sua battaglia di minoranza. Molti erano gli assenti, ma grazie a Dio la democrazia è partecipazione. Molti sono usciti con nuove speranze (qualcuno mugugnando), nell’ora di un tramonto che dispiegava tutta la sua magnificenza sulla linea dell’orizzonte in una spremitura color arancio fuoco.
“Se è notte, ci sarà il giorno”. Bello slogan in salsa romagnola. Speriamo porti più fortuna di “I care” o “Yes, we can!”

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