lunedì 7 dicembre 2009

27° Torino Film Festival: Storie di giovani senza padre

Mi piace, come faccio ogni anno, mettermi in coda per entrare a vedere più o meno il dieci per cento delle tante pellicole proposte dal Torino Film Festival. Può capitare di restare in coda per almeno un’ora prima di infilarsi nell’atrio del cinema o di cominciare a salire la scalinata che ci immetterà nella sala prescelta. Ma ogni volta ne vale sempre la pena. Non ci si annoia a restare in coda. Basta guardarsi intorno e sembra di assistere a tanti piccoli film. Piccole sceneggiature con dialoghi minimalisti che si dipanano davanti ai miei occhi a corredo di improbabili storie che io giro e monto nella mia testa. Due signore davanti a me discutono amabilmente di quali verdure approvvigionarsi per una buona “bagna cauda”. Nocciolo della questione: le carote sono verdure che ben si sposano all’intingolo piemontese? Una ragazza, costipata e infagottata nella sua lunga sciarpa rossa, al cellulare dice parole d’amore ad una persona lontana (sto con l’orecchio teso ad acchiappare feticisticamente frasi e sguardi). Si avvicina un uomo con il cappello sulle ventitrè, ha la faccia rincagnata come un Jean Gabin invecchiato male. Camicia viola e cravatta a pois, sigaretta pendula sulle labbra carnose. Pare un personaggio uscito da una canzone di Gipo Farassino. Domanda perché siamo in coda. Per vedere un film. “Il cinema è morto” – dichiara – “Non ci sono più i grandi registi americani, non c’è più la nouvelle vague francese. E anche il neorealismo italiano ormai è storia passata”. Ogni tanto salta su qualcuno a riproporre il medesimo quesito. Il cinema è morto? Forse non se la passa tanto bene, ma, perdindirindina, evviva il cinema! Come direbbe Woody Allen, però nemmeno io mi sento troppo bene. Ciononostante, siamo in coda al 27° Torino Film Festival. Per celebrare il rito delle innumerevoli resurrezioni del cinema, ogni tanto dato per spacciato. E che non suoni blasfemo! Come i tanti devoti che ogni anno attendono con ansia che nelle due ampolle dov’è conservato si liquefaccia il sangue di San Gennaro, anche noi speriamo che sugli schermi del Tff si liberi la linfa rigeneratrice del cinema internazionale.
Il film più bello. Difficile ammettere di essere riuscito a vedere qualche capolavoro. Ma qualche film più che dignitoso sì, a cominciare da Yang Yang del regista taiwanese Cheng Yu Chieh, che con la sua indiscreta cinecamera esplora in incantevoli primi piani la bellezza malinconica della protagonista, di etnia mista, essendo per metà francese e per metà taiwanese. Yang Yang non ha mai conosciuto suo padre e per questo si trascina dietro un viluppo di emozioni contraddittorie, dalla felicità, subito infranta, della nuova famiglia, quando la madre si sposa, a innamoramenti mai portati più in là del desiderio, fino a quando, trasformata da atleta ad attrice, nel film di un regista francese, catarticamente si libera dall’ossessione della figura paterna mai conosciuta. Quando già sfilano i titoli di coda il regista la segue in una notturna corsa liberatoria.
Il film più sgradevole. Un altro film della prolifica e indomita cinematografia asiatica. Kinatay (Il macello) del regista filippino Brillante Mendoza. Manila, inizio solare. Due giovani studenti, poveri ma belli, con uno scarno accompagnamento di parenti, corrono incontro alla loro felicità: sposarsi davanti a un funzionario pubblico, anche perché hanno già un figlio. Peping, il protagonista, è studente di criminologia e sogna di diventare poliziotto in sella alla moto, per guadagnare di più. Al momento, reclutato da un suo vecchio compagno di classe corrotto, entra a far parte di una gang che taglieggia piccoli commercianti ambulanti e traffica in droga. Se, però, Peping vuole più soldi, deve partecipare ad un maledetto affare. Da qui in poi, inizia un incubo interminabile, un fatale inabissarsi nel profondo dell’orrore. Un viaggio notturno di disumanizzazione, un’odissea verso l’inferno. Il piccolo nucleo criminale, la squadra della morte, comandata da un boss sadico e perverso, ex militare, sequestra, tortura e uccide in maniera efferata una prostituta tossica che non ha saldato il suo debito, spargendone i resti come tracce trionfali. Il regista segue pornograficamente gli eventi nella penombra, lascia intravedere attraverso immagini scure, piuttosto sporche, quasi a voler distanziare lo spettatore dalla visione delle scene più macabre. In realtà per colpirlo spietatamente allo stomaco, quando la povera vittima, offesa e maltrattata, subisce l’inimmaginabile. Il giovane Peping, pur non partecipando direttamente al massacro, ne resta sempre più invischiato. Per lui non c’è redenzione. Purtroppo neanche il castigo.

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