giovedì 30 giugno 2011

Brucia, prof, brucia!

L’anno scolastico è giunto a metà del suo corso e, con esso, aumenta il rischio di logoramento psicofisico degli insegnanti. Che cos’è questo fenomeno noto come burnout? Si tratta di una condizione caratterizzata da affaticamento fisico ed emotivo, atteggiamento distaccato e apatico nei rapporti interpersonali, sentimento di frustrazione e perdita di controllo dei propri impulsi. E’ soprattutto appannaggio delle cosiddette helping profession tra cui sono compresi psicologi, assistenti sociali, medici, psichiatri ed insegnanti. Le relazioni sono psichicamente usuranti ed i docenti ne devono avere con studenti, loro genitori, colleghi e dirigente scolastico. Si consideri infine che l’insegnante è vittima dell’infondato stereotipo dello “scansafatiche”. Lei afferma che la categoria degli insegnanti è più esposta rispetto ad altri lavoratori al rischio di burnout? Perché? Con la pubblicazione scientifica dello studio “Quale rischio di patologia psichiatrica per la categoria professionale degli insegnanti?”, è stato operato un confronto tra quattro macrocategorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario, operai). I risultati mostrano inequivocabilmente che la categoria degli insegnanti - in controtendenza con gli stereotipi diffusi nell’opinione pubblica - è soggetta a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori manuali. Lo studio evidenzia inoltre come gli insegnanti presentino il rischio di sviluppare una neoplasia, superiore di 1.5-2 volte rispetto ad operatori manuali ed impiegati. Ciò è verosimilmente conseguenza della immunodepressione che accompagna gli stati ansioso-depressivi e le condizioni stressanti. A ulteriore riprova del fatto che la professione dell’insegnante è a rischio di patologia psichiatrica, studi analoghi a quello milanese sono stati condotti nella ASL di Torino e di Verona, ottenendo risultati sovrapponibili. Infatti la percentuale di motivazioni psichiatriche che hanno determinato l’accertamento medico-collegiale nei docenti è stata rispettivamente del 48,9% e del 46,3%. Procedendo a ritroso nel tempo (1979) troviamo inoltre una pubblicazione della CISL dal titolo significativo: “Insegnare logora?”. Nella ricerca condotta insieme all’Università di Pavia su 2.000 insegnanti dell’area milanese risultò che il 30% del campione faceva uso di psicofarmaci, con punte del 34% tra i docenti che operavano in periferia. Il fenomeno del Disagio Mentale Professionale (DMP) tra gli insegnanti è una questione internazionale - proprio perché collegato all’attività professionale svolta – ed è stata la Francia ad aver lanciato per prima il preoccupante allarme suicidi tra gli insegnanti nel 2007. Non ultimo, il Giappone ha fatto registrare, nell’ultimo decennio, un incremento dal 34 al 56% delle cause psichiatriche di astensione del lavoro per malattia. Anche in Germania il recente studio fatto in Baviera ha evidenziato come la maggior parte dei prepensionamenti per causa di salute hanno luogo in seguito a malattie mentali, con significativa differenza a svantaggio delle donne che – è bene ricordarlo – rappresentano l’82% del corpo docente. Si tratta insomma di un problema, legato alla professione svolta, che non conosce frontiere.
Quali sono i fattori che predispongono il corpo insegnante al burnout? Le ragioni del DMP sono molteplici e complesse. Teniamo innanzitutto per buone le motivazioni già espresse (gli stereotipi dell’opinione pubblica), cui si aggiungono una bassa considerazione per la professione, ed il basso salario che ne discende. Annoveriamo inoltre la globalizzazione con studenti di diverse etnie, l’abolizione delle scuole speciali per i ragazzi portatori di handicap, l’informatizzazione con l’avvento di internet, la comunicazione veloce grazie alla telefonia, la moltiplicazione delle reti televisive con un’ampia offerta etc. Vi sono poi i fattori sociali quali l’abbandono dell’educazione “normativa” in famiglia che è oggi rimpiazzata da quella “affettiva”. La sostituzione dell’asse genitore-insegnante con quello genitore-figlio (ancora più serrato e deleterio nelle famiglie che oggi in larga maggioranza hanno il figlio unico). Oggi il genitore è divenuto il sindacalista del figlio nel senso deteriore del termine. La categoria professionale dei nostri docenti possiede inoltre un’età media avanzata (50 anni) con molti anni di servizio alle spalle. Uno scenario davvero preoccupante, destinato a peggiorare se non ci diamo da fare.
Quali sono i sintomi che possono farci capire se un docente è in burnout? Innanzitutto la ritrosia ad affrontare a viso aperto il malessere psichico. Ciò induce il docente ad isolarsi attuando reazioni di adattamento (chiamate coping in gergo specialistico) negative quali il bere, il fumare, il pasticcarsi. Il passo verso la vera e propria malattia psichiatra è dunque breve ed è definitivamente sancito dalla perdita della capacità critica e di giudizio. Cosa per la quale scatteranno inconsapevolmente dei meccanismi di difesa quali l’aggressività nei confronti del prossimo o la fuga dagli impegni, frequenti manie di persecuzione e accuse di mobbing nei confronti del dirigente scolastico e dei colleghi. L’evidente ricaduta sull’utenza è facilmente immaginabile. Sembra quasi che la collettività riconosca all’insegnante di poter arrivare al massimo ad una condizione di “esaurimento” (il burnout appunto) ma non certo allo stadio di malattia psichiatrica propriamente detta. Il fenomeno si spiega in maniera assai semplice: l’opinione pubblica ritiene che un lavoro semplice e “poco impegnativo” come quello dell’insegnante – con mezza giornata di lavoro e 3 mesi di ferie all’anno – può generare al massimo piccoli contrattempi o qualche insignificante grattacapo. Inoltre va ricordato che gli insegnanti in Italia sono quasi un milione e rappresentano un’ampia fetta di opinione pubblica. Ciò equivale a riconoscere che loro stessi sono “condizionati” dai suddetti stereotipi e si vergognano a parlare del proprio disagio.
Quanto i dirigenti scolastici hanno la consapevolezza e la capacità di gestire il fenomeno? Nel corso del penultimo anno scolastico (2007/08), insieme all’Associazione Nazionale Presidi, abbiamo condotto un’indagine nazionale su 1.412 dirigenti scolastici (DS) per valutare l’appropriatezza della gestione e della prevenzione del DMP scolastico attuate nei rispettivi istituti. Il risultato è sconfortante poiché meno dell’1% dei DS conosce ed utilizza in modo appropriato gli strumenti per gestire il DMP (cioè il ricorso alla Commissione Medica di Verifica). Ci conforta però sapere che docenti e DS ritengono fondamentale che le istituzioni provvedano a fornire un’adeguata formazione dei presidi in tema di gestione e prevenzione del DMP negli insegnanti (89,3% dei docenti e 96,8% dei DS) informando questi ultimi dei rischi psicosociali cui espone la professione.
Come (e soprattutto se) si può fare prevenzione? Oltre a formare i DS sulla gestione del DMP, occorre mettere gli insegnanti in grado di riconoscere i fattori predisponenti al burnout ed i segnali clinici premonitori. Ciò al fine di consentire loro di effettuare un’autovalutazione del livello di rischio che è rappresentato dalla sommatoria di fattori professionali ed extraprofessionali (es. eredo-familiarità, carattere, fattori biologici come sesso ed età, stili di vita, vita di relazione, grandi eventi etc). Occorre poi avere ben presenti i rischi psicosociali che comporta la professione svolta (per giunta marchiata da infondati stereotipi cui gli stessi docenti sono inconsciamente soggetti) aiuta certamente gli interessati a monitorare le proprie reazioni, controllare gli impulsi e mantenere accettabili i livelli di stress, condividendo il disagio tra colleghi e predisponendosi a favorire il reinserimento lavorativo di chi ha attraversato il DMP.
Qual è la percentuale di insegnanti che si presentano in Collegio Medico di Verifica con diagnosi psichiatrica? A livello nazionale non si dispone di questi dati, anche se i Ministeri competenti dovrebbero attrezzarsi per ovviare alla mancanza. Nella provincia di Milano possiamo affermare, con cognizione di causa, che le visite di accertamento per le inabilità al lavoro dei docenti vedono oggi alla base una diagnosi psichiatrica nel 70% dei casi (nel ’92 erano solo – si fa per dire – il 40%). Notiamo invece che le insegnanti delle materne si “usurano” prima delle colleghe della scuola primaria (45 anni rispetto a 46,5) poiché cominciano prima a lavorare. Questo fenomeno è dunque riconducibile all’anzianità di servizio ed è confermato dal fatto che professori delle medie e del liceo giungono all’osservazione del collegio medico rispettivamente a 48 e 50 anni. Certamente vi sono delle patologie psichiatriche (psicosi, disturbi di personalità etc) prevalentemente riconducibili all’eredo-familiarità dell’interessato, ma sono la minoranza, non superando il 30% della casistica psichiatrica riscontrata. Come abbiamo visto, i dirigenti purtroppo sono ben lontani dal conoscere le modalità per gestire questi casi complessi, ricorrendo all’accertamento sanitario in CMV spesso in maniera approssimativa. Le patologie reattive (depressione, ansia, disturbi dell’adattamento etc.) restano comunque la stragrande maggioranza (70% del totale) e richiedono un percorso alla cui base deve esserci la condivisione e il supporto dei colleghi. Ecco perché docenti e dirigenti devono essere informati sul rischio e formati rispettivamente su come prevenirlo e gestirlo.
Ci sono disposizioni ministeriali per prevenire o intervenire nel problema? Per il momento ancora nessuna disposizione ministeriale in materia. Stranamente un silenzio assordante anche da parte dei sindacati. La strada è dunque in salita ma spero che le ricerche svolte e il nuovo Testo Unico per la tutela della salute dei lavoratori (D. L.vo 81/2008 e successive modifiche integrative col D. L.vo. 106/09) portino al più presto le istituzioni ad interessarsi concretamente alle condizione in cui oggi versano i docenti. Si pensi poi che l’art. 28 del succitato decreto impone di misurare lo stress lavoro correlato anche tenendo conto dell’età e del sesso del lavoratore. Inutile ricordare che l’82% del corpo docente è donna con un’età media di 50 anni. Intanto, su impulso dei docenti che hanno partecipato in settembre ai miei seminari, stiamo raccogliendo firme per sollecitare il ministro ad agire con strumenti concreti per contrastare il DMP. Questi sono: la raccolta di dati su scala nazionale (come avviene in Francia), la formazione di docenti e dirigenti sul Disagio Mentale Professionale (DMP), la sensibilizzazione dell’Opinione Pubblica sulla realtà dell’usura psicofisica professionale, l’informazione dei medici sul DMP. Non ultima, è richiesta al ministro estrema cautela prima di contemplare l’allungamento dell’età previdenziale ai 65 anni nella donna insegnante. Per fare ciò occorrono prima i dati epidemiologici che quantifichino il reale fenomeno del DMP tra i docenti. Lo stesso discorso vale per poter dichiarare “usurante” la professione dell’insegnante: prima occorrono dati su base nazionale. In attesa che le istituzioni si muovano, ho messo a punto una proposta standard per tutte le scuole della Penisola articolata in tre passaggi chiave: informazione dei docenti sul rischio di DMP, un primo supporto per l’orientamento medico per chi lo richiedesse, la formazione per i dirigenti scolastici circa la gestione medico-legale dei casi di DMP.
Ci sono differenze nel rischio di essere colpiti dal disagio mentale professionale (DMP) fra docenti dei diversi ordini e gradi di scuola? La casistica finora esaminata non ha permesso di stabilire un maggior rischio per i docenti di un particolare ordine di scuola (le differenze rilevate non hanno significatività statistica), mentre vi è la certezza che la psicopatologia è direttamente correlata all’anzianità di servizio del docente (generalmente superiore ai 20 anni). Vi è invece un’altra variabile cui dobbiamo porre la nostra attenzione. Posto che il tasso di femminilizzazione della classe docente è dell’85% e l’età media dei nostri insegnanti è di 50 anni, merita particolare attenzione la questione della cosiddetta differenza di genere contemplata dal succitato Testo Unico per la sicurezza sul lavoro. Il disturbo psichiatrico depressivo è più frequente nel sesso femminile (donne:uomini=2:1), e la maggiore incidenza nella donna, diviene ancora superiore ove si consideri la fascia d’età perimenopausale (poiché la stessa donna ha un rischio depressivo quintuplicato in periodo perimenopausale rispetto all’età fertile).
Non ha fatto un quadro molto confortante della situazione. Cosa vuole dirci prima di chiudere? In Aprile uscirà il mio terzo libro sul DMP (dopo Scuola di Follia e La Scuola paziente) dal titolo “Pazzi per la Scuola” e riporterà ben 123 storie e testimonianze significative di docenti incontrati in quasi 20 anni di attività in Collegio Medico. é un buono strumento di aiuto per tutti i docenti e per coloro che volessero intraprendere la professione. Leggere le storie degli altri aiuta certamente a comprendere meglio la propria, riconoscendo talvolta quei segnali che il corpo trasmette ma la mente si ostina a rifiutare. Riconoscere una propria fragilità o un iniziale cedimento può rappresentare il primo passo verso la propria salvezza. Al contrario, la negazione pervicace di una condizione di disagio condanna la persona alla malattia. Guardare negli occhi la realtà è il primo passo per prepararsi alla battaglia. Mi conforta la reazione dei docenti che seguono i miei seminari: si dicono preoccupati e intimoriti dai dati che mostro loro, ma al contempo vogliono reagire perché “… c’è finalmente qualcuno che racconta le cose come stanno …”. Buon proseguimento di Anno Scolastico a tutti.

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