Anche quest’anno, nel rispetto dello statuto della “confraternita dei polietilici rilassati”, che impone il raduno annuale a Villa Olimpia, casa settecentesca dell’anfitrione Emilio, siamo partiti per Fossalto, nel medio Sannio, alla ricerca dell’amico mai perduto. Abbiamo svuotato le tasche d’ogni tristezza e, ancora anemici di allegria, abbiamo recuperato il buon sangue strada facendo. Lasciata alle spalle la prateria, abbiamo spostato più in là la frontiera. Oltre la linea Maginot del nostro scontento.
Come i personaggi di “Amici miei”, di nuovo pronti alla celia, allo scherzo, alla goliardia”. “Cos’è il genio? – ci ha spesso ricordato Carlo che conosce le battute del film di Monicelli a memoria – È fantasia, intuizione, colpo d’occhio, velocità di esecuzione”. Noi, emuli maldestri, abbiamo cercato di fare del nostro meglio. Lungo la strada ci hanno accompagnato le canzoni di Mia Martini. Con la sua voce graffiante, capace di arrampicarsi su scale musicali estreme, ci ha gelato ogni volta che urlava “…gli uomini ci uccidono”. Ma in quel momento nulla ci importava di essere “uomini…quasi come un ideale che non c’è”. Tanto valeva accontentarci delle canzoni del napoletano Toni Tammaro, sconosciuto cantante di nicchia, che racconta storie marginali, di amori mai vissuti appieno, di calzini rossi e gialli che volano nel cielo, della signora Gargiulo e di Baia Domizia. Ci teneva allegri, come un poeta clown, con le sue storie straordinarie. Abbiamo tagliato a fette la penisola centro-orientale e siamo arrivati a destinazione.
Dopo il “girone”, in fondo alla strada, ecco Emilio là ad attenderci, bianco come Caronte, ma non per antico pelo, già pronto a traghettarci nel regno delle beatitudini. Una donna al suo fianco, con gli occhi profondi da gitana e il profilo greco. Bellezza mediterranea. Il nostro arrivo è stato alquanto bizzarro: sul tavolino, davanti alla gelateria “Italia”, Domenico Carosone, il titolare, aveva già stappato una bottiglia di prosecco, freddo come un brivido di paura. Zass, il pastore maremmano, era accoccolato nel suo quadrato di letizia, già pronto a scodinzolare come se avesse riconosciuto Ulisse reduce nella sua Itaca. Proprio in quel momento, nemmeno il tempo di scendere dall’auto, passava la banda musicale. Come in un film di Totò, quando arriva lo zio d’America. La banda, però, non suonava per noi. Era la festa del Corpus Domini. Alberto, Carlo Corrado ed io, eravamo di nuovo nel nostro piccolo paradiso, a riprenderci dalla vita che corre troppo in fretta e alla quale nessun ministro o codice può imporre limiti di velocità. Procede con la stessa impudenza del sauro che abbiamo visto sgroppare sulle montagne del basso Matese tra le pale eoliche dell’energia alternativa. Alle spalle avevamo lasciato giornate ormai dimenticate. Eravamo di nuovo a Fossalto, nel Molise, tra il verde mai sazio della vegetazione e le colline che si inseguono all’infinito, che sembrano salire in groppa l’una sull’altra, come nel gioco della cavallina, per arrivare ad acchiappare la luna, ma è tutta un’illusione. Il paesaggio, in realtà, è immobile, come lo sfondo di un presepe. Sulle murge, lungo il tratturo, la via della transumanza, i paesi molisani, con le chiese, gli antichi castelli padronali e le case di pietra, all’improvviso ti sorprendono dietro ogni curva. Scavati nella roccia o attorcigliati attorno ad essa, come l’edera. Già, la pietra è l’elemento basilare di quella terra mai doma. Anche nei nomi dei paesi. Pietracupa, Pietrabbondante, Pietracatella, Roccavivare. E così via.
Nel caseificio, dove siamo andati a far visita, le mani callose, ma gentili, degli operai, con movimenti rapidi e pazienti, dal latte rappreso facevano mozzarelle e scamorze, morbide come seni. Ai nostri sguardi miopi. Però dalle lenti spesse. In quel formaggio fresco abbiamo affondato i denti, ricavandone una grazia verginale. Quando tornavamo dalle nostre esplorazioni nel territorio, c’era sempre il gelato alla frutta di Domenico, vero e proprio maestro, e di sua madre, donna Italia. Lo si leccava con la stessa delicatezza con la quale un cane lecca la mano al padrone. Lentamente per assaporarne il gusto appieno, in modo da farlo riaffiorare nelle sere di inverno, quando i ricordi si fanno più vivi, nonostante il gelo nei cuori.
Buon Dio, è bella la nostra amicizia, fatta di chiacchiere in libertà, di pranzi salutari e di bevute a garganella. In quei giorni, lontano dalle nostre donne, verso le quali torniamo, ogni volta con nuova baldanza. L’amicizia, all’interno della “confraternita” è come un bicchiere mai vuoto, come l’ultima fetta di soppressata che gira di mano in mano, è come un lungo salmone, cucinato col sale, che il nostro anfitrione ci ha offerto nel suo giardino delle delizie, mentre la sera cresceva nel cielo tra i cipressi che si muovevano al vento come i pennacchi dei cimieri, e i tagli delle rondini - uccelli capaci di acchiappare minuscoli insetti volanti a velocità incredibili - in una baraonda, apparentemente priva di senso, ma in realtà con traiettorie prestabilite per la sopravvivenza.
lunedì 13 ottobre 2008
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