Qualcuno ricorda (forse la memoria dell’evento appartiene maggiormente alle generazioni dei più anziani) una delle tappe del Tour del 1952, quando sul passo del Galibier avvenne l’ormai “leggendario” passaggio di borraccia tra i due grandi campioni del ciclismo, rivali di sempre: Bartali e Coppi?
Nessuno ha mai saputo chi veramente fosse il possessore della borraccia e avesse deciso di consegnarla nelle mani dell’altro, schiantato e assetato dal sudore della salita. Restando sempre nell’ambito del ciclismo, mi piace considerare quanto sia duro e mai troppo lodato il lavoro svolto dai gregari, consistente tanto nel fornire al proprio capitano i rifornimenti – per tale ragione sono anche definiti “portatori d’acqua” – quanto nel realizzare insieme ad altri compagni di squadra una bel trenino, al fine di perfezionare le condizioni aerodinamiche, attenuare la fatica del capitano e tirargli così la volata finale.
La metafora del gregario mi serve per esprimere un giudizio personale su chi, forte del suo “appeal elettorale”, ossia in nome della quantità di voti portati in dote, una volta che la propria lista ottenga l’auspicata vittoria, reclami, come per un automatico e medievale diritto divino, una carica superiore, pur non avendo probabilmente per essa adeguata competenza. Essere “portatore di voti” è lusinghiero: può costituire un vantaggio, ma al fascino penso sia necessario abbinare anche capacità e tenacia. Altrimenti si rischia il millantato credito.
Inoltre, al termine di un mandato, non si può nemmeno pretendere che, in vista della successiva scadenza elettorale, per forza di cose o per reiterato diritto divino (apparteneva alle monarchie assolute dell’ancien régime) se ne debba vantare un altro, pretendendo magari cariche ancora più prestigiose rispetto alla precedente di cui si è stati titolari, semplicemente in virtù del personale potere suggestivo presso gli elettori, ossia per il semplice fatto di essere – sia ben chiaro – meritevoli “portatori di voti”. Chi vuole candidarsi non deve portare semplicemente i voti, ma deve anche dimostrare di essere all’altezza dell’incarico cui ambisce.
Prima di avanzare pretese, questi candidati dovrebbero, infatti, mettersi umilmente al servizio della squadra, di cui condividono la proposta, e impegnarsi alla realizzazione del progetto.
Sul passo del Galibier, che fosse Bartali o Coppi il “benefattore”, poco importa. Fatto sta che la vittoria finale arrise ai colori italiani. Ma lì si trattava di due autentici campioni, di cui uno scelse di fare il gregario.
Il gregario non potrà mai ambire ad essere un fuoriclasse, perché molto probabilmente manca del necessario genio, ma senza alcun dubbio esegue un lavoro determinante per la vittoria del suo talentuoso “capitano”. Il gregario nel ciclismo porta l’acqua, tira la volata; il mediano nel calcio è cheek to cheek col pallone, per spingerlo poi verso il rifinitore. Entrambi in ogni caso esercitano un ruolo essenziale, pur nella piena consapevolezza di non avere quel tocco o quello scatto geniali in più. Entrambi stanno, come canta Ligabue ne “La vita da mediano”, dove ne ha mitizzato il ruolo, “… sempre lì//lì nel mezzo//finché ce n’hai stai lì//una vita da mediano//da chi segna sempre poco//che il pallone devi darlo//a chi finalizza il gioco//una vita da mediano//che natura non ti ha dato//né lo spunto della punta//né del 10” …
Nessuno ha mai saputo chi veramente fosse il possessore della borraccia e avesse deciso di consegnarla nelle mani dell’altro, schiantato e assetato dal sudore della salita. Restando sempre nell’ambito del ciclismo, mi piace considerare quanto sia duro e mai troppo lodato il lavoro svolto dai gregari, consistente tanto nel fornire al proprio capitano i rifornimenti – per tale ragione sono anche definiti “portatori d’acqua” – quanto nel realizzare insieme ad altri compagni di squadra una bel trenino, al fine di perfezionare le condizioni aerodinamiche, attenuare la fatica del capitano e tirargli così la volata finale.
La metafora del gregario mi serve per esprimere un giudizio personale su chi, forte del suo “appeal elettorale”, ossia in nome della quantità di voti portati in dote, una volta che la propria lista ottenga l’auspicata vittoria, reclami, come per un automatico e medievale diritto divino, una carica superiore, pur non avendo probabilmente per essa adeguata competenza. Essere “portatore di voti” è lusinghiero: può costituire un vantaggio, ma al fascino penso sia necessario abbinare anche capacità e tenacia. Altrimenti si rischia il millantato credito.
Inoltre, al termine di un mandato, non si può nemmeno pretendere che, in vista della successiva scadenza elettorale, per forza di cose o per reiterato diritto divino (apparteneva alle monarchie assolute dell’ancien régime) se ne debba vantare un altro, pretendendo magari cariche ancora più prestigiose rispetto alla precedente di cui si è stati titolari, semplicemente in virtù del personale potere suggestivo presso gli elettori, ossia per il semplice fatto di essere – sia ben chiaro – meritevoli “portatori di voti”. Chi vuole candidarsi non deve portare semplicemente i voti, ma deve anche dimostrare di essere all’altezza dell’incarico cui ambisce.
Prima di avanzare pretese, questi candidati dovrebbero, infatti, mettersi umilmente al servizio della squadra, di cui condividono la proposta, e impegnarsi alla realizzazione del progetto.
Sul passo del Galibier, che fosse Bartali o Coppi il “benefattore”, poco importa. Fatto sta che la vittoria finale arrise ai colori italiani. Ma lì si trattava di due autentici campioni, di cui uno scelse di fare il gregario.
Il gregario non potrà mai ambire ad essere un fuoriclasse, perché molto probabilmente manca del necessario genio, ma senza alcun dubbio esegue un lavoro determinante per la vittoria del suo talentuoso “capitano”. Il gregario nel ciclismo porta l’acqua, tira la volata; il mediano nel calcio è cheek to cheek col pallone, per spingerlo poi verso il rifinitore. Entrambi in ogni caso esercitano un ruolo essenziale, pur nella piena consapevolezza di non avere quel tocco o quello scatto geniali in più. Entrambi stanno, come canta Ligabue ne “La vita da mediano”, dove ne ha mitizzato il ruolo, “… sempre lì//lì nel mezzo//finché ce n’hai stai lì//una vita da mediano//da chi segna sempre poco//che il pallone devi darlo//a chi finalizza il gioco//una vita da mediano//che natura non ti ha dato//né lo spunto della punta//né del 10” …
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