venerdì 12 dicembre 2008

La felicità è un airone bianco

In questo periodo, in cui il mondo, in una delle sue fasi storiche più critiche, sembra vacillare pericolosamente sul precipizio, come Charlot nel film “Tempi moderni”, quando danza sui pattini a rotelle e sembra sempre in procinto di cadere nel vuoto, mi capita spesso di pensare alla felicità e al senso che tale parola sottintende.
Forse perché, anche quando tutto sembra perduto, nei luoghi più riposti dell’anima si apre uno spiraglio, per un’ostinata volontà di resistenza. La parola felicità esprime di solito uno stato di benessere totale che l’individuo vorrebbe vivere in maniera duratura. Per essere felici, occorre non avere preoccupazioni fisiche, spirituali o materiali; talora basta un’inezia per renderci felici o infelici. La felicità, pur essendo un concetto mentale difficile da definire, indica, però, una condizione umana irrinunciabile. La felicità è il nostro fine ultimo. Tutti gli uomini cercano di essere felici: vogliono stare bene, convertire in moneta sonante i loro desideri e vivere in modo totale la propria vita. Tutto ciò, naturalmente, è compromesso quando si vive in uno stato di dolore o afflizione. Non tocca a me fare le pulci all’etica cristiana. Non sono dottore di teologia. Qualcosa da dire a riguardo, però, l’avrei. Il cristianesimo, spostando altrove il luogo della felicità e rinviandone, possibilmente nel futuro più lontano, il momento risolutivo, favorisce la tendenza al sacrificio e alla rinuncia. Modi di essere che inducono a soffocare l'orgoglio o l'ambizione, insomma qualsivoglia passione tesa alla realizzazione del proprio essere. Lo scopo di tutto questo dovrebbe essere la virtù o la santità. Ma c'è posto, all'interno di questa visione, per la felicità? Naturalmente, non vorremmo neppure essere obbligati ad essere felici, come accade nelle gabbie e nelle insidie delle tirannidi, nei lager e nei gulag dei totalitarismi. Meglio piuttosto il diritto all’infelicità!
Tutti tendono al raggiungimento della felicità: ciò che induce gli uni ad andare alla guerra e gli altri a non andarci è lo stesso desiderio di felicità che in entrambi è accompagnato da punti di vista differenti. Questo dice Pascal, uomo di fede e di pensiero, sul Sommo Bene. Mi chiedo quale possa essere il sentimento di felicità che ha armato i due nichilisti, innamorati di una tragica utopia, i quali, repressa nell’intimo ogni specie di amore per sé o per il prossimo, hanno pensato che qualche volta la morte di un uomo è un semplice incidente di percorso – mi riferisco all’agente di polizia ucciso sul treno – rispetto all’idea ossessiva dell’uomo nuovo da costruire o della felicità proletaria. Qual è, inoltre, il sentimento di felicità che spinge un uomo di governo a desiderare la distruzione di un popolo? Così vuole per la felicità e serenità del proprio? Quale conquista e quale vittoria nell’uno e l’altro caso, per il terrorista e l’uomo di guerra?
La felicità realizzata, compiuta e perfetta non è più felicità "vera". Non siamo angeli né beati, ma esseri in carne e ossa, per cui anche la semplice puntura di un aculeo provoca in noi la quintessenza del dolore. La felicità in realtà è fatta solo di istanti isolati, immediati, che si dissolvono con lo stesso sfavillio della scia di una cometa. La sua condizione duratura, quella che appartiene ad un’abitudine o a un modo di vita consolidati, è sempre di natura inferiore rispetto alla magia contagiosa con cui ci ubriacano i singoli momenti di felicità.
Quante volte, “lontano dalle vie sonanti degli strepiti umani”, mi attardo a passeggiare per la campagna, soprattutto adesso che la stagione è più indulgente e la luce più prodiga. Mi piace osservare gli straordinari incontri e le fantastiche rivelazioni che la natura ci riserva. Nel mio giardino già l’albicocco – quale felicità! – protende i suoi rami potati al cielo, ricco delle sue gemme preziose. È un albero dei miracoli, ogni anno dà i suoi frutti puntualmente. Lo piantò un amico che adesso non c’è più, otto anni fa, e veramente gli ha infuso le sue qualità migliori. È un attimo di felicità cogliere la tensione dei suoi germogli pronti ad esplodere in una miriade di fiori bianchi e rosa…ma un fiore solo ha più risalto di cento fiori. La felicità è l’albicocco in fiore, ma la sorpresa più grande mi è capitata vicino alla Cascina Belvedere, non lontano dal depuratore. Forse un airone cinerino, un uccello di grossa taglia, bianco sul collo e sul ventre, grigio chiaro sul dorso, la coda e le ali; sul collo teso e lungo risaltava una striscia nera, e una seconda striscia congiungeva l’occhio alla punta di un’ampia cresta; becco e zampe sottili, tendenti al rossiccio. “Graak!”. L’uccello, niente affatto disturbato dalla mia presenza, è rimasto immobile nella sua vigile attesa.
La stessa magica visione che raccontò un viaggiatore delle Americhe quando si imbatté nel quetzal, l’uccello del Guatemala. Anch’esso immobile, come in attesa. Le sue piume trascoloravano alla luce del sole, che invadeva ormai le rovine dell'antico villaggio maya che aveva appena visitato. Non era spaventato dalla sua presenza. Sì, era il quetzal. Era un privilegio vederlo, il magico uccello. Avrebbe voluto toccarlo, ma non osò per timore che scappasse via. Rimase per lungo tempo affascinato dinanzi a quella visione sfolgorante, a quella esplosione di colori, incapace di fare un qualsiasi gesto per timore di rompere l'incantamento. Poi l'uccello d'improvviso si sollevò dal suo covacciolo, distese le ali e spiccò il volo a levante, ma non per dileguarsi. Si mise a girare lentamente in cerchio. Poi si lanciò in avanti, infilandosi nel fitto della foresta tropicale. Come un bambino ubbidiente, il viaggiatore si mise dietro nella sua traiettoria. Ogni tanto il bellissimo uccello andava a posarsi su un ramo e sembrava indugiare, come aspettandolo. Poi riprendeva quota. Dolcemente, in silenzio. Finché si era fermato sulla cima di un grande albero. Dopo qualche indugio il quetzal era volato via librandosi sulla sommità degli alberi. L’aveva seguito con gli occhi pieni di lacrime salire in alto, sempre più in alto, finché non aveva ammainato le ali chiudendosi, come un occhio verde e rosso, nell'azzurro terso del cielo. Un attimo di felicità delirante e doloroso.

1 commento:

scrivano ha detto...

Bello, dolce e struggente!
Perchè spesso dimentichiamo che molti, brevi step li incontriamo lungo il percorso della vita ma, purtroppo, lo notiamo solo quando ci voltiamo.

C. Scrivano