Qualche sera fa eravamo quattro amici, non proprio al bar, come canta la canzone di Gino Paoli, ma intorno ad un tavolo. Non c’era da bere, ma il clima che si era creato tra noi era dei più terapeutici. Si stava bene insieme, dopo aver esaurito lo sfogo di antichi e più recenti rancori. Era tutto a posto: i nostri bioritimi avevano un buon livello. Eravamo tra l’altro riusciti a gettare nel cestino quel senso di amarezza che coglie quando si sospetta di avere subìto un torto o un tradimento ed era scesa su noi un’aria calma e serena. Naturalmente niente di mistico e nemmeno un’alterazione della coscienza dovuta a qualche improvvida sostanza stupefacente. Dio ce ne scampi! Si era, insomma, creata tra i componenti del nostro piccolo gruppo una specie di empatia che in quel momento ci ha permesso una benefica circolazione di idee e di pensieri. Così, d’improvviso, ci siamo trovati in maniera assolutamente naturale e spontanea a parlare di Annibale. Senza l’offuscamento della tristezza. Come se l’amico si fosse congedato da noi per breve tempo con l’impegno di ritrovarci al prossimo imminente appuntamento. Qualche sera fa ognuno di noi ha masticato il proprio ricordo, come fanno certi yemeniti quando rigirano in bocca quelle insidiose foglie di qat, che aumentano la socialità e dilatano i sentimenti. E man mano che i ricordi si incrociavano, cresceva in noi la consapevolezza di quanto grande fosse la figura del vecchio amico toscano. Non c’era retorica nei nostri racconti, ma semplicemente il desiderio di rendere viva la memoria attraverso la forza rigeneratrice della parola, a poco più di un anno dalla sua scomparsa.
Annibale – chiunque l’ha conosciuto è testimone di che stoffa fosse l’uomo – non era una di quelle persone anziane che tradivano quel caratteristico spirito di disincanto e di amarezza che, più ancora dell’età in se stessa, finisce per innalzare una specie di muro tra esse e il resto del mondo. Aveva un entusiasmo immutato verso la vita e le persone. Senza steccati, senza barriere. Senza pregiudizi.
Era un comunista (“farabutto”, direbbe il premier) passato poi, negli ultimi vent’anni di storia italiana, attraverso tutte le infinite furie riformiste del partito, fino all’ultima, la più faticosa e ancora imperfetta. Cioè la costruzione del partito democratico, alla quale aveva contribuito fin dagli esordi, quando il progetto aveva ancora un che di informe e bizzarro.
Ed era un buon cristiano, perché veramente amava il prossimo come se stesso. Più di se stesso. Tanti a None e dintorni sono coloro che hanno sperimentato quella sua congenita combinazione di generosità e solidarietà che lo rendeva testimone unico di una buona novella. Camminava a testa alta tra la gente - mai con gli occhi bassi, infagottato nei suoi pensieri - disponendosi all’ascolto di chiunque a lui si rivolgesse. Non esibiva mai il suo impegno con inutile vanità, ma tagliava a fette il suo tempo distribuendolo a piene mani agli altri in modo disinteressato. Che fosse il partito, l’associazione o il sindacato. Non dilapidava le parole, come fanno certi cicalanti imbrodatori, ma le sceglieva con socratica giusta misura. E intorno a lui si faceva silenzio per ascoltarlo.
Annibale, insomma, era uno di quegli uomini che pensava di fare semplicemente il proprio dovere, consapevole che chi compie il proprio dovere non deve aspettarsi alcuna ricompensa ed era uno di quegli uomini che univa e non divideva, al di sopra di ogni genoma ideologico. La sua vicenda umana deve servire non contro, ma per qualcuno e qualcosa.
Qualche sera fa, attorno ad un tavolo dove non c’era niente da bere, quattro amici, che con lui hanno condiviso frammenti significativi di esistenza, hanno parlato di Annibale in modo sobrio, senza ribalta. E improvvisamente si sono accorti di sentirsi più soli.
mercoledì 14 ottobre 2009
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