giovedì 30 giugno 2011

Il crocefisso imbalsamato e la Chiesa viva in Cristo

Nella scuola dove lavoro, in un’aula ho il crocifisso alle spalle, in un’altra sulla parete di sinistra. Tutti e due, tipici prodotti della società della riproducibilità tecnica. Materiali: legno e plastica. Sono, insomma, immerso nelle tanto esaltate “radici cristiane”. Ogni tanto mi soffermo a guardare quei simboli religiosi e provo a ragionare sul mio essere, prima che cristiano, cittadino rispettoso dello Stato nel quale vivo e per il quale lavoro. Devo dire che ho sempre cercato di svolgere la mia professione al meglio, al di là della presenza del crocifisso imposto per legge. Se proprio devo affidarmi a un simbolo, il mio riferimento è un minuscolo crocifisso stilizzato in peltro, tre centimetri per due, che ho “salvato”, strappandolo da una parete desolata e anonima, in una casa abbandonata e fatiscente. Lo custodisco nella tasca del portafoglio come un’icona sacra privata.
Non lo ritengo un crocifisso imbalsamato, ma vivo. Nelle chiese del mio viaggiare, mi capita spesso di soffermarmi sui magnifici crocefissi, autentici capolavori di arte religiosa, e di guardare le braccia di Cristo distese sulla croce. E ogni volta mi convinco che quelle siano le braccia che ogni autentico cristiano deve avere, inchiodate sui più profondi valori evangelici. Quelli improntati sulla pratica del Dio accogliente. Il crocifisso non deve essere uno strumento di chiusura, di separazione. Ha ragione lo storico Sergio Luzzatto nel suo libro “Il crocifisso di Stato”, dove scrive: “… nulla impedisce ai credenti di appendere il segno di tale annuncio (n.d.r. futuro della Salvezza) alle pareti della propria casa, senza imporlo altrove ai non cristiani e ai non credenti. Mentre il muro bianco delle nostre scuole potrebbe essere arredato con simboli di ciò che unisce, mescola, accomuna, anziché di ciò che divide, separa, discrimina.”. Luzzatto critica il pensiero di Natalia Ginsburg. La grande scrittrice, più di venti anni fa, era intervenuta nel merito di una questione civile sollevata da una professoressa di Cuneo, Maria Vittoria Migliano, che aveva richiesto al preside di rimuovere da tutte le aule quel simbolo religioso, in obbedienza alla lettera e allo spirito del nuovo Concordato. Così aveva affermato in un suo articolo, intitolato “Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano”, pubblicato nell’Unità del 22 marzo 1988: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro…” Non voglio entrare nel merito della querelle. Semplicemente faccio mio il motto evangelico: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” A me interessa, soprattutto, l’enfasi politica che si è fatta da parte di alcuni autorevoli esponenti del governo e non, dopo la sentenza del 18 marzo da parte della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti Umani, che ha posto fine alla controversia sollevata da una signora finlandese contro lo Stato italiano sull’esposizione del crocifisso nell’aula di una scuola pubblica. Questa sentenza, in contrasto con la precedente, ha accolto in pratica il ricorso del governo italiano, stabilendo che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non viola di fatto il diritto dei genitori a garantire ai propri figli un’educazione conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche. Il crocifisso è, insomma, secondo questa sentenza, “un simbolo essenzialmente passivo”, in quanto non costituisce un elemento di indottrinamento e di proselitismo. Vale la pena entrare nel dettaglio delle dichiarazioni di coloro che hanno intonato i loro peana di vittoria all’uscita della sentenza. Per il leader del Carroccio, Umberto Bossi, la prima sentenza della Corte Europea, che imponeva di togliere il crocifisso dalle classi, era una “str…” (sic). Chissà come ha gioito ora che in Europa c’è stata un’inversione a 360 gradi rispetto al giudizio precedente! Sappiamo che“la Lega è il partito non delle metropoli secolarizzate, ma del contado. E il contado sono i campanili. Noi siamo con la pancia della Chiesa”, come ha dichiarato una volta Giuseppe Baiocchi, vecchio direttore della “Padania”. Fatto salvo, però, che la Chiesa, magari nella voce dell’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, naturalmente non osi parlare di tolleranza e accoglienza cristiana, di rispetto della persona umana, e non si azzardi ad auspicare l’eventuale costruzione di nuove moschee per il culto islamico. In nome della “pancia della Chiesa” e della difesa del crocifisso in Europa, infatti, agli stranieri provenienti dal Nord Africa in fiamme, con le buone maniere cristiane, è meglio sparare (sic Castelli, autorevole leghista). Un altro buon esempio di “pietas” cristiana ci viene da un’altra affermazione, pronunciata in questo caso da un consigliere provinciale di Treviso a commento delle politiche repressive contro l’immigrazione da parte del governo italiano: “Usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino”. Questa è insomma la sintesi dell’ideologia, così bene spiegata nel giornale “La Padania” di qualche anno fa (pensiero rimasto pressoché immutato): “Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Sbatteteli fuori questi maledetti!”. Lasciamo da parte il florilegio del pensiero razzista pronunciato dalla pancia identitaria cristiana della Lega. Borghezio docet. Un’ultima riflessione mi preme fare. La trascrivo in punta di penna per non turbare la sensibilità religiosa di qualche autentico buon cristiano. Il primo maggio ci sarà la beatificazione a furor di popolo di Giovanni Paolo II (“gigante di Dio”). A tale proposito, a me piace ricordare un’altra figura religiosa, Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso il 24 marzo 1980 con una fucilata alla giugulare da parte di un sicario nella sua Chiesa, durante l’offertorio della messa. Tra i due, Wojtyla e Romero, non corse mai buon sangue. Ci fu sempre una forte incompatibilità di vedute sul modello di Chiesa: il primo rappresentava la Chiesa tradizionale, istituzionale, preconciliare; il secondo auspicava una Chiesa viva, vicina nel nome di Cristo al mondo dei poveri e degli oppressi. Durante il suo apostolato Romero, dopo qualche titubanza, ebbe il coraggio di denunciare il governo militare, autoritario, violento e corrotto, e le ingiustizie sociali della tragedia salvadoregna. Gli omicidi di poveri contadini e di oppositori al regime, i massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra, protette e finanziate dal governo. Nella biografia del prelato salvadoregno si racconta delle molte difficoltà che incontrò prima di essere ricevuto a Roma in udienza da papa Wojtyla, a cui intendeva riportare le istanze del suo popolo perseguitato. Da parte sua il pontefice neoeletto si limitò a sollecitare l’arcivescovo a costruire una relazione migliore con il governo sanguinoso del suo paese. Credo sia giusto, fatto beato Giovanni Paolo II in modo così tempestivo, portare a termine il processo di beatificazione di Oscar Romero, iniziato nel lontano 1997. Moltissimi credenti in America Latina già venerano ‘San Romero d’America’; da laggiù, infatti, sono pervenute a Roma migliaia di firme per sollecitarne la beatificazione. Al momento richiesta inesaudita, perché - si sospetta nella Curia romana - se Romero giungesse all’apoteosi di beato, la sua figura correrebbe il rischio di essere strumentalizzata.
In conclusione, a mio modesto avviso, non basta riempire i muri e le pareti di crocifissi per avere una società più giusta e migliore. Perché, infatti, tanti mafiosi, anche essi figli di Dio, hanno in una mano la pistola, nell’altra il crocifisso?

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