giovedì 30 giugno 2011

L'anfiteatro dei ragazzi cristallizzati

Né Whright, né Le Corbusier, maestri dell’architettura moderna, si sono rigirati nella tomba per l’abbattimento dell’ “anfiteatro” in piazza Rubiano. Né tantomeno ci sono state impetuose sollevazioni popolari. La piazzetta adiacente alla scuola materna, così acconciata, non ha mai sollevato grandi entusiasmi nei nonesi. Negli anni le gradinate si erano un po’ alla volta sgretolate, in ragione della povertà dei materiali utilizzati, e i metalli si erano un po’ troppo in fretta arrugginiti – niente a che fare con l’acciao patinabile corten usato per la nuova biblioteca, che ha la caratteristica di ossidarsi in superficie fino a formare una patina protettiva per il materiale sottostante, anche se, per quanto mi riguarda, quell’acciaio rugginoso è orripilante, ma forse risponde ai criteri di una nuova funzionale “bellezza dissonante”.
Tornando all’anfiteatro, l’architetto che l’ha progettato, con la sua fervente creatività l’ha concepito – azzardo – come una specie di “orecchio di Dionisio”. Da una prospettiva dall’alto, infatti, la sua conformazione ellittica, la piccola arena con il suo vialetto adiacente, poteva dare adito ad un’idea del genere.
L’orecchio di Dionisio altro non era che una grotta artificiale, destinata a prigione, che, per la sua specifica risonanza, consentiva, secondo una leggenda più o meno accreditata, al tiranno di Siracusa Dionisio di ascoltare i lamenti dei prigionieri ivi reclusi. Detto questo e lasciando perdere le reminiscenze classiche, diversi sono stati i mutamenti che il sito di None ha avuto nel tempo. Da cascina, struttura tipica del paesaggio agricolo padano, ad anfiteatro, spazio di rappresentazione ludico ricreativa, per trasformarsi alla fine in un grumo catramo-bituminoso per il parcheggio.
Lungi da me la volontà di fare sfoggio delle mie approssimative conoscenze architettoniche. Con questa pur lunga digressione intendo semplicemente disvelare un po’ alla volta l’argomento che più mi preme, prendendo spunto da quella che io ritengo essere stata la funzione più importante giocata dalla struttura di piazza Rubiano. Una vera e propria funzione sociale, in quanto da certa gioventù l’anfiteatro era stato prescelto come significativo punto di aggregazione. Quante volte, attraversando piazza Cavour, abbiamo visto gruppi di adolescenti e giovani far comunella nell’anfiteatro, in pose più o meno composte!
Si tratta, a ben vedere, della medesima funzione svolta dai bar, “muretti”, strade, giardini, centri storici, sale giochi, centri commerciali, dove si incontrano e si vedono pittoresche e sgarrupate tribù giovanili. L’anfiteatro di per se stesso tendeva ad assomigliare ad una sorta di riserva indiana all’interno della quale, sotto l’occhio avido e un po’ maramaldesco delle telecamere, sistemate strategicamente nella piazza, i ragazzi dipanavano le loro storie, progettavano i loro “dispetti”, certificavano la loro visibilità. Torno per un attimo all’esempio sopra citato dell’orecchio di Dionisio: provenienti dalla piazzetta Rubiano, con un po’ di attenzione, avremmo potuto ascoltare le risonanze, le lamentazioni di quel volgo disperso, spasmodicamente teso alla ricerca di nuove terre promesse.
Lavorando nella scuola, conosco uno per uno quei giovani che si affastellano tra loro per formare branchi indistinti. Uno in particolare mi è rimasto impresso. L’ho incrociato giorni fa vicino alla rotatoria di via Torino. Era all’incirca mezzogiorno. Tornando di necessità per quella strada, l’ho rincontrato cinque ore più tardi, fermo nel medesimo punto come se fosse stato cristallizzato da un’improbabile lava vulcanica. Blando e smunto. C’era stato tutto il tempo perché la pioggia lo bagnasse e il vento lo asciugasse. Lo stesso ragazzo, una volta uscito dalle medie, lo si poteva vedere quasi tutti i giorni davanti alla scuola, fermo come un palo, al punto tale da meritarsi l’appellativo di mummia. Dei ragazzi dell’anfiteatro, dobbiamo dirla tutta, poco ci siamo preoccupati, sia da parte delle diverse agenzie educative, sia da parte delle istituzioni. Ogni volta che li abbiamo incontrati, abbiamo rivolto loro sguardi, talora indifferenti talaltra infastiditi. A None, è vero, c’è il palazzetto dello sport, c’è l’oratorio, ma si tratta di strutture poco attrezzate nei confronti di ragazzi sfaccendati che una scuola, impotente, vilipesa e denaturata rispetto alle sue prerogative educative, ha estromesso nei gangli della società, sballati come “arance meccaniche” (lo scrittore Burgess e il regista Kubrick insegnano). Eppure qualcosa si dovrebbe e potrebbe fare, come ad esempio definire una struttura, da affidare a personale qualificato che abbia l’affidabilità, la forza e l’entusiasmo propulsivi e inclusivi dei maestri di strada, dove i ragazzi possano sì far gazzarra, ricrearsi (con quanto di meglio c’è sul mercato), ma dove ci sia anche l’opportunità di raddrizzare destini altrimenti irrimediabilmente scritti.

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