lunedì 8 aprile 2013

La ballata delle gatte madri

www.ilmiolibro.itLa ballata delle gatte madri: La ballata delle gatte madri a un romanzo compassionevole sulla brutalità  umana, dedicato a Pier Paolo Pasolini, grande coscienza critica del Novecento.

Prima del "continua" Dopo il "continua" Continua...

giovedì 30 giugno 2011

Ho pubblicato, nella forma del self publishing, nella collana “ilmiolibro”, il romanzo noir “La ballata delle gatte madri”. Ho pubblicato, nella forma del self publishing, nella collana “ilmiolibro”, il romanzo noir
“La ballata delle gatte madri”.
“Erasmo Terrasanta, già inviato di guerra sul fronte balcanico e ora tranquillo, anche se un po' depresso, cronista di un giornale locale della provincia torinese, interloquisce, tra sedute psicanalitiche e sballi, con l'Usignolo, assassino seriale gentile e sedicente fratello di Pasolini. Attorno alla storia principale ruotano altri personaggi con le loro vicende: Lea, archivista della questura, che si invaghisce di un ex terrorista mai conosciuto, sosia di Gérard Philipe, un'orchessa e, soprattutto, le gatte madri che vigilano sulle vite e sulle dimore dei protagonisti di questa ballata noir tra Novecento e terzo Millennio".

Chiunque fosse interessato al libro può acquistarlo (18 €) on line nei siti (nessun guadagno per l’autore, solo l’onore):
www.ilmiolibro.it
oppure
www.lafeltrinelli.it
Scusate il disturbo!
Continua...

Brucia, prof, brucia!

L’anno scolastico è giunto a metà del suo corso e, con esso, aumenta il rischio di logoramento psicofisico degli insegnanti. Che cos’è questo fenomeno noto come burnout? Si tratta di una condizione caratterizzata da affaticamento fisico ed emotivo, atteggiamento distaccato e apatico nei rapporti interpersonali, sentimento di frustrazione e perdita di controllo dei propri impulsi. E’ soprattutto appannaggio delle cosiddette helping profession tra cui sono compresi psicologi, assistenti sociali, medici, psichiatri ed insegnanti. Le relazioni sono psichicamente usuranti ed i docenti ne devono avere con studenti, loro genitori, colleghi e dirigente scolastico. Si consideri infine che l’insegnante è vittima dell’infondato stereotipo dello “scansafatiche”. Lei afferma che la categoria degli insegnanti è più esposta rispetto ad altri lavoratori al rischio di burnout? Perché? Con la pubblicazione scientifica dello studio “Quale rischio di patologia psichiatrica per la categoria professionale degli insegnanti?”, è stato operato un confronto tra quattro macrocategorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario, operai). I risultati mostrano inequivocabilmente che la categoria degli insegnanti - in controtendenza con gli stereotipi diffusi nell’opinione pubblica - è soggetta a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori manuali. Lo studio evidenzia inoltre come gli insegnanti presentino il rischio di sviluppare una neoplasia, superiore di 1.5-2 volte rispetto ad operatori manuali ed impiegati. Ciò è verosimilmente conseguenza della immunodepressione che accompagna gli stati ansioso-depressivi e le condizioni stressanti. A ulteriore riprova del fatto che la professione dell’insegnante è a rischio di patologia psichiatrica, studi analoghi a quello milanese sono stati condotti nella ASL di Torino e di Verona, ottenendo risultati sovrapponibili. Infatti la percentuale di motivazioni psichiatriche che hanno determinato l’accertamento medico-collegiale nei docenti è stata rispettivamente del 48,9% e del 46,3%. Procedendo a ritroso nel tempo (1979) troviamo inoltre una pubblicazione della CISL dal titolo significativo: “Insegnare logora?”. Nella ricerca condotta insieme all’Università di Pavia su 2.000 insegnanti dell’area milanese risultò che il 30% del campione faceva uso di psicofarmaci, con punte del 34% tra i docenti che operavano in periferia. Il fenomeno del Disagio Mentale Professionale (DMP) tra gli insegnanti è una questione internazionale - proprio perché collegato all’attività professionale svolta – ed è stata la Francia ad aver lanciato per prima il preoccupante allarme suicidi tra gli insegnanti nel 2007. Non ultimo, il Giappone ha fatto registrare, nell’ultimo decennio, un incremento dal 34 al 56% delle cause psichiatriche di astensione del lavoro per malattia. Anche in Germania il recente studio fatto in Baviera ha evidenziato come la maggior parte dei prepensionamenti per causa di salute hanno luogo in seguito a malattie mentali, con significativa differenza a svantaggio delle donne che – è bene ricordarlo – rappresentano l’82% del corpo docente. Si tratta insomma di un problema, legato alla professione svolta, che non conosce frontiere.
Quali sono i fattori che predispongono il corpo insegnante al burnout? Le ragioni del DMP sono molteplici e complesse. Teniamo innanzitutto per buone le motivazioni già espresse (gli stereotipi dell’opinione pubblica), cui si aggiungono una bassa considerazione per la professione, ed il basso salario che ne discende. Annoveriamo inoltre la globalizzazione con studenti di diverse etnie, l’abolizione delle scuole speciali per i ragazzi portatori di handicap, l’informatizzazione con l’avvento di internet, la comunicazione veloce grazie alla telefonia, la moltiplicazione delle reti televisive con un’ampia offerta etc. Vi sono poi i fattori sociali quali l’abbandono dell’educazione “normativa” in famiglia che è oggi rimpiazzata da quella “affettiva”. La sostituzione dell’asse genitore-insegnante con quello genitore-figlio (ancora più serrato e deleterio nelle famiglie che oggi in larga maggioranza hanno il figlio unico). Oggi il genitore è divenuto il sindacalista del figlio nel senso deteriore del termine. La categoria professionale dei nostri docenti possiede inoltre un’età media avanzata (50 anni) con molti anni di servizio alle spalle. Uno scenario davvero preoccupante, destinato a peggiorare se non ci diamo da fare.
Quali sono i sintomi che possono farci capire se un docente è in burnout? Innanzitutto la ritrosia ad affrontare a viso aperto il malessere psichico. Ciò induce il docente ad isolarsi attuando reazioni di adattamento (chiamate coping in gergo specialistico) negative quali il bere, il fumare, il pasticcarsi. Il passo verso la vera e propria malattia psichiatra è dunque breve ed è definitivamente sancito dalla perdita della capacità critica e di giudizio. Cosa per la quale scatteranno inconsapevolmente dei meccanismi di difesa quali l’aggressività nei confronti del prossimo o la fuga dagli impegni, frequenti manie di persecuzione e accuse di mobbing nei confronti del dirigente scolastico e dei colleghi. L’evidente ricaduta sull’utenza è facilmente immaginabile. Sembra quasi che la collettività riconosca all’insegnante di poter arrivare al massimo ad una condizione di “esaurimento” (il burnout appunto) ma non certo allo stadio di malattia psichiatrica propriamente detta. Il fenomeno si spiega in maniera assai semplice: l’opinione pubblica ritiene che un lavoro semplice e “poco impegnativo” come quello dell’insegnante – con mezza giornata di lavoro e 3 mesi di ferie all’anno – può generare al massimo piccoli contrattempi o qualche insignificante grattacapo. Inoltre va ricordato che gli insegnanti in Italia sono quasi un milione e rappresentano un’ampia fetta di opinione pubblica. Ciò equivale a riconoscere che loro stessi sono “condizionati” dai suddetti stereotipi e si vergognano a parlare del proprio disagio.
Quanto i dirigenti scolastici hanno la consapevolezza e la capacità di gestire il fenomeno? Nel corso del penultimo anno scolastico (2007/08), insieme all’Associazione Nazionale Presidi, abbiamo condotto un’indagine nazionale su 1.412 dirigenti scolastici (DS) per valutare l’appropriatezza della gestione e della prevenzione del DMP scolastico attuate nei rispettivi istituti. Il risultato è sconfortante poiché meno dell’1% dei DS conosce ed utilizza in modo appropriato gli strumenti per gestire il DMP (cioè il ricorso alla Commissione Medica di Verifica). Ci conforta però sapere che docenti e DS ritengono fondamentale che le istituzioni provvedano a fornire un’adeguata formazione dei presidi in tema di gestione e prevenzione del DMP negli insegnanti (89,3% dei docenti e 96,8% dei DS) informando questi ultimi dei rischi psicosociali cui espone la professione.
Come (e soprattutto se) si può fare prevenzione? Oltre a formare i DS sulla gestione del DMP, occorre mettere gli insegnanti in grado di riconoscere i fattori predisponenti al burnout ed i segnali clinici premonitori. Ciò al fine di consentire loro di effettuare un’autovalutazione del livello di rischio che è rappresentato dalla sommatoria di fattori professionali ed extraprofessionali (es. eredo-familiarità, carattere, fattori biologici come sesso ed età, stili di vita, vita di relazione, grandi eventi etc). Occorre poi avere ben presenti i rischi psicosociali che comporta la professione svolta (per giunta marchiata da infondati stereotipi cui gli stessi docenti sono inconsciamente soggetti) aiuta certamente gli interessati a monitorare le proprie reazioni, controllare gli impulsi e mantenere accettabili i livelli di stress, condividendo il disagio tra colleghi e predisponendosi a favorire il reinserimento lavorativo di chi ha attraversato il DMP.
Qual è la percentuale di insegnanti che si presentano in Collegio Medico di Verifica con diagnosi psichiatrica? A livello nazionale non si dispone di questi dati, anche se i Ministeri competenti dovrebbero attrezzarsi per ovviare alla mancanza. Nella provincia di Milano possiamo affermare, con cognizione di causa, che le visite di accertamento per le inabilità al lavoro dei docenti vedono oggi alla base una diagnosi psichiatrica nel 70% dei casi (nel ’92 erano solo – si fa per dire – il 40%). Notiamo invece che le insegnanti delle materne si “usurano” prima delle colleghe della scuola primaria (45 anni rispetto a 46,5) poiché cominciano prima a lavorare. Questo fenomeno è dunque riconducibile all’anzianità di servizio ed è confermato dal fatto che professori delle medie e del liceo giungono all’osservazione del collegio medico rispettivamente a 48 e 50 anni. Certamente vi sono delle patologie psichiatriche (psicosi, disturbi di personalità etc) prevalentemente riconducibili all’eredo-familiarità dell’interessato, ma sono la minoranza, non superando il 30% della casistica psichiatrica riscontrata. Come abbiamo visto, i dirigenti purtroppo sono ben lontani dal conoscere le modalità per gestire questi casi complessi, ricorrendo all’accertamento sanitario in CMV spesso in maniera approssimativa. Le patologie reattive (depressione, ansia, disturbi dell’adattamento etc.) restano comunque la stragrande maggioranza (70% del totale) e richiedono un percorso alla cui base deve esserci la condivisione e il supporto dei colleghi. Ecco perché docenti e dirigenti devono essere informati sul rischio e formati rispettivamente su come prevenirlo e gestirlo.
Ci sono disposizioni ministeriali per prevenire o intervenire nel problema? Per il momento ancora nessuna disposizione ministeriale in materia. Stranamente un silenzio assordante anche da parte dei sindacati. La strada è dunque in salita ma spero che le ricerche svolte e il nuovo Testo Unico per la tutela della salute dei lavoratori (D. L.vo 81/2008 e successive modifiche integrative col D. L.vo. 106/09) portino al più presto le istituzioni ad interessarsi concretamente alle condizione in cui oggi versano i docenti. Si pensi poi che l’art. 28 del succitato decreto impone di misurare lo stress lavoro correlato anche tenendo conto dell’età e del sesso del lavoratore. Inutile ricordare che l’82% del corpo docente è donna con un’età media di 50 anni. Intanto, su impulso dei docenti che hanno partecipato in settembre ai miei seminari, stiamo raccogliendo firme per sollecitare il ministro ad agire con strumenti concreti per contrastare il DMP. Questi sono: la raccolta di dati su scala nazionale (come avviene in Francia), la formazione di docenti e dirigenti sul Disagio Mentale Professionale (DMP), la sensibilizzazione dell’Opinione Pubblica sulla realtà dell’usura psicofisica professionale, l’informazione dei medici sul DMP. Non ultima, è richiesta al ministro estrema cautela prima di contemplare l’allungamento dell’età previdenziale ai 65 anni nella donna insegnante. Per fare ciò occorrono prima i dati epidemiologici che quantifichino il reale fenomeno del DMP tra i docenti. Lo stesso discorso vale per poter dichiarare “usurante” la professione dell’insegnante: prima occorrono dati su base nazionale. In attesa che le istituzioni si muovano, ho messo a punto una proposta standard per tutte le scuole della Penisola articolata in tre passaggi chiave: informazione dei docenti sul rischio di DMP, un primo supporto per l’orientamento medico per chi lo richiedesse, la formazione per i dirigenti scolastici circa la gestione medico-legale dei casi di DMP.
Ci sono differenze nel rischio di essere colpiti dal disagio mentale professionale (DMP) fra docenti dei diversi ordini e gradi di scuola? La casistica finora esaminata non ha permesso di stabilire un maggior rischio per i docenti di un particolare ordine di scuola (le differenze rilevate non hanno significatività statistica), mentre vi è la certezza che la psicopatologia è direttamente correlata all’anzianità di servizio del docente (generalmente superiore ai 20 anni). Vi è invece un’altra variabile cui dobbiamo porre la nostra attenzione. Posto che il tasso di femminilizzazione della classe docente è dell’85% e l’età media dei nostri insegnanti è di 50 anni, merita particolare attenzione la questione della cosiddetta differenza di genere contemplata dal succitato Testo Unico per la sicurezza sul lavoro. Il disturbo psichiatrico depressivo è più frequente nel sesso femminile (donne:uomini=2:1), e la maggiore incidenza nella donna, diviene ancora superiore ove si consideri la fascia d’età perimenopausale (poiché la stessa donna ha un rischio depressivo quintuplicato in periodo perimenopausale rispetto all’età fertile).
Non ha fatto un quadro molto confortante della situazione. Cosa vuole dirci prima di chiudere? In Aprile uscirà il mio terzo libro sul DMP (dopo Scuola di Follia e La Scuola paziente) dal titolo “Pazzi per la Scuola” e riporterà ben 123 storie e testimonianze significative di docenti incontrati in quasi 20 anni di attività in Collegio Medico. é un buono strumento di aiuto per tutti i docenti e per coloro che volessero intraprendere la professione. Leggere le storie degli altri aiuta certamente a comprendere meglio la propria, riconoscendo talvolta quei segnali che il corpo trasmette ma la mente si ostina a rifiutare. Riconoscere una propria fragilità o un iniziale cedimento può rappresentare il primo passo verso la propria salvezza. Al contrario, la negazione pervicace di una condizione di disagio condanna la persona alla malattia. Guardare negli occhi la realtà è il primo passo per prepararsi alla battaglia. Mi conforta la reazione dei docenti che seguono i miei seminari: si dicono preoccupati e intimoriti dai dati che mostro loro, ma al contempo vogliono reagire perché “… c’è finalmente qualcuno che racconta le cose come stanno …”. Buon proseguimento di Anno Scolastico a tutti.
Continua...

Michele Astegiano, il cuore oltre le tenebre

Anche se non ce l’ha fatta, Michele Astegiano merita rispetto. Grande rispetto e tanta ammirazione, perché è uno capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo, assumere cioè decisioni temerarie che talora sembrano un affronto a quello che comunemente viene definito “buonsenso”. Come l’Ulisse di Umberto Saba, ovvero come un uomo che, pure a 58 anni, non riesce a stare fermo come un pantofolaio. Che, dopo aver trascorso gran parte delle sue stagioni di sfida in sfida, si mostra ancora smanioso di mettersi in gioco, preferendo l’infinito periglioso mare, mettendo il cuore oltre le colonne d’Ercole della stabilità, piuttosto che la bonaccia del porto illuminato in cui trova ricovero chi invece è desideroso di pace e tranquillità. … al largo sospinge ancora il non domato spirito e della vita il doloroso amore … Insomma, ha deciso di affrontare la vita nelle sue due essenziali manifestazioni di amore e di dolore, mettendo a repentaglio cuore e salute. Con il solo scopo di soddisfare la sua dignità di uomo mai domo alla ricerca di un traguardo più elevato. L’ha fatto il 13 novembre al velodromo di Montichiari, terra del leghismo celodurista e del multiculturalismo cristiano progressista bresciano. Su una pista di 250 metri in pino siberiano, dentro una struttura ovoidale, incastonata in una struttura a maglia di acciaio, simile ad un’astronave aliena. L’organizzazione è stata pressoché perfetta, grazie a Luca Ferrua e famiglia. Giudici italiani e stranieri per dare il meritato prestigio alla prova. Prima gli inni svizzero e francese, dedicati rispettivamente a Losanna e Parigi, sedi dei maggiori organismi del ciclismo internazionale; poi gli inni degli Usa, paese natale di Steve Lehman, detentore del record mondiale (M 6) dell’ora (44,5488 km), e dell’Italia, patria dello sfidante. Gli inni sono stati suonati – indovinate un po’ - dalla banda musicale di Pomaretto, che prima del tentativo ha allietato il pubblico con un repertorio assolutamente originale. Assenza, apparentemente ingiustificata, della banda di None, di cui l’atleta nonese è componente. Eppure nelle passate sfide locali la nostra filarmonica non aveva mai fatto mancare la sua performance. Si è poi notata la smaccata assenza dell’Amministrazione comunale. C’è da chiedersi come sia possibile che nessuno dei venti amministratori (sindaco compreso), sabato 13, non sia riuscito a ritagliarsi un lasso di tempo per conferire rilievo istituzionale all’evento. Di certo ne sarebbe valsa la pena, perché l’evento c’è stato e Astegiano, nonostante che non sia riuscito a togliere il record all’americano, ha dato spettacolo lungo quella necessaria e assoluta striscia sottile, nella parte bassa della pista, delimitata sopra da una pennellata rosso sangue e sotto da una pennellata nero di seppia. La cinquantina di sostenitori nonesi, al seguito, ha messo in sincrono i precordi e le emozioni con il cuore e i muscoli di Michele, l’ha incitato, ha urlato, invocandone il nome ad ogni giro. Il preparatore Sergio Benzio a bordo pista, cronometro alla mano, protendendosi fino all’estremo come un buon samaritano verso il suo assistito, ha dettato i tempi. Sollecitando il novello pistard a guardare sempre avanti, per restare incollato a quel tracciato ben definito, così da non perdere secondi preziosi. E Michele ce l’ha messa tutta per non deragliare da quella linea, fatale come la linea d’ombra del protagonista del romanzo di Joseph Conrad. E dentro quella striscia così marcata c’erano: tutta la solitudine con se stessi, la difficoltà di conoscersi nel profondo, nel vortice ambiguo e contraddittorio dei sentimenti, nel contrasto tra gli ideali ricercati o le ambizioni velleitarie a rischio di attuazione. C’era nello sguardo teso di Michele soprattutto la paura di non sentirsi all’altezza del compito che talvolta la vita inculca, al declinare della stagione dei giochi, per osteggiare le “tenebre”, avvero le avversità con dignità e coraggio. Quando il superbo atleta è sceso dalla bicicletta, sul viso c’era lo sfregio della fatica estrema. La piccola folla, intorno, l’ha avvolto con tutto il calore e l’affetto che meritava. Sul display dei computer e dei cronometri baluginava uno splendido tempo: 40 km e 788 metri. Non il record mondiale, ma la migliore prestazione su pista a livello italiano nella categoria “Master 6”, secondo il riconoscimento della stessa Federazione Italiana di ciclismo. Sì, Michele merita rispetto e grande ammirazione, anche se non ce l’ha fatta a battere il record dell’americano Steve Lehman. E non è detto che possa riprovarci sulla medesima pista. Continua...

L'anfiteatro dei ragazzi cristallizzati

Né Whright, né Le Corbusier, maestri dell’architettura moderna, si sono rigirati nella tomba per l’abbattimento dell’ “anfiteatro” in piazza Rubiano. Né tantomeno ci sono state impetuose sollevazioni popolari. La piazzetta adiacente alla scuola materna, così acconciata, non ha mai sollevato grandi entusiasmi nei nonesi. Negli anni le gradinate si erano un po’ alla volta sgretolate, in ragione della povertà dei materiali utilizzati, e i metalli si erano un po’ troppo in fretta arrugginiti – niente a che fare con l’acciao patinabile corten usato per la nuova biblioteca, che ha la caratteristica di ossidarsi in superficie fino a formare una patina protettiva per il materiale sottostante, anche se, per quanto mi riguarda, quell’acciaio rugginoso è orripilante, ma forse risponde ai criteri di una nuova funzionale “bellezza dissonante”.
Tornando all’anfiteatro, l’architetto che l’ha progettato, con la sua fervente creatività l’ha concepito – azzardo – come una specie di “orecchio di Dionisio”. Da una prospettiva dall’alto, infatti, la sua conformazione ellittica, la piccola arena con il suo vialetto adiacente, poteva dare adito ad un’idea del genere.
L’orecchio di Dionisio altro non era che una grotta artificiale, destinata a prigione, che, per la sua specifica risonanza, consentiva, secondo una leggenda più o meno accreditata, al tiranno di Siracusa Dionisio di ascoltare i lamenti dei prigionieri ivi reclusi. Detto questo e lasciando perdere le reminiscenze classiche, diversi sono stati i mutamenti che il sito di None ha avuto nel tempo. Da cascina, struttura tipica del paesaggio agricolo padano, ad anfiteatro, spazio di rappresentazione ludico ricreativa, per trasformarsi alla fine in un grumo catramo-bituminoso per il parcheggio.
Lungi da me la volontà di fare sfoggio delle mie approssimative conoscenze architettoniche. Con questa pur lunga digressione intendo semplicemente disvelare un po’ alla volta l’argomento che più mi preme, prendendo spunto da quella che io ritengo essere stata la funzione più importante giocata dalla struttura di piazza Rubiano. Una vera e propria funzione sociale, in quanto da certa gioventù l’anfiteatro era stato prescelto come significativo punto di aggregazione. Quante volte, attraversando piazza Cavour, abbiamo visto gruppi di adolescenti e giovani far comunella nell’anfiteatro, in pose più o meno composte!
Si tratta, a ben vedere, della medesima funzione svolta dai bar, “muretti”, strade, giardini, centri storici, sale giochi, centri commerciali, dove si incontrano e si vedono pittoresche e sgarrupate tribù giovanili. L’anfiteatro di per se stesso tendeva ad assomigliare ad una sorta di riserva indiana all’interno della quale, sotto l’occhio avido e un po’ maramaldesco delle telecamere, sistemate strategicamente nella piazza, i ragazzi dipanavano le loro storie, progettavano i loro “dispetti”, certificavano la loro visibilità. Torno per un attimo all’esempio sopra citato dell’orecchio di Dionisio: provenienti dalla piazzetta Rubiano, con un po’ di attenzione, avremmo potuto ascoltare le risonanze, le lamentazioni di quel volgo disperso, spasmodicamente teso alla ricerca di nuove terre promesse.
Lavorando nella scuola, conosco uno per uno quei giovani che si affastellano tra loro per formare branchi indistinti. Uno in particolare mi è rimasto impresso. L’ho incrociato giorni fa vicino alla rotatoria di via Torino. Era all’incirca mezzogiorno. Tornando di necessità per quella strada, l’ho rincontrato cinque ore più tardi, fermo nel medesimo punto come se fosse stato cristallizzato da un’improbabile lava vulcanica. Blando e smunto. C’era stato tutto il tempo perché la pioggia lo bagnasse e il vento lo asciugasse. Lo stesso ragazzo, una volta uscito dalle medie, lo si poteva vedere quasi tutti i giorni davanti alla scuola, fermo come un palo, al punto tale da meritarsi l’appellativo di mummia. Dei ragazzi dell’anfiteatro, dobbiamo dirla tutta, poco ci siamo preoccupati, sia da parte delle diverse agenzie educative, sia da parte delle istituzioni. Ogni volta che li abbiamo incontrati, abbiamo rivolto loro sguardi, talora indifferenti talaltra infastiditi. A None, è vero, c’è il palazzetto dello sport, c’è l’oratorio, ma si tratta di strutture poco attrezzate nei confronti di ragazzi sfaccendati che una scuola, impotente, vilipesa e denaturata rispetto alle sue prerogative educative, ha estromesso nei gangli della società, sballati come “arance meccaniche” (lo scrittore Burgess e il regista Kubrick insegnano). Eppure qualcosa si dovrebbe e potrebbe fare, come ad esempio definire una struttura, da affidare a personale qualificato che abbia l’affidabilità, la forza e l’entusiasmo propulsivi e inclusivi dei maestri di strada, dove i ragazzi possano sì far gazzarra, ricrearsi (con quanto di meglio c’è sul mercato), ma dove ci sia anche l’opportunità di raddrizzare destini altrimenti irrimediabilmente scritti.

Continua...

Il crocefisso imbalsamato e la Chiesa viva in Cristo

Nella scuola dove lavoro, in un’aula ho il crocifisso alle spalle, in un’altra sulla parete di sinistra. Tutti e due, tipici prodotti della società della riproducibilità tecnica. Materiali: legno e plastica. Sono, insomma, immerso nelle tanto esaltate “radici cristiane”. Ogni tanto mi soffermo a guardare quei simboli religiosi e provo a ragionare sul mio essere, prima che cristiano, cittadino rispettoso dello Stato nel quale vivo e per il quale lavoro. Devo dire che ho sempre cercato di svolgere la mia professione al meglio, al di là della presenza del crocifisso imposto per legge. Se proprio devo affidarmi a un simbolo, il mio riferimento è un minuscolo crocifisso stilizzato in peltro, tre centimetri per due, che ho “salvato”, strappandolo da una parete desolata e anonima, in una casa abbandonata e fatiscente. Lo custodisco nella tasca del portafoglio come un’icona sacra privata.
Non lo ritengo un crocifisso imbalsamato, ma vivo. Nelle chiese del mio viaggiare, mi capita spesso di soffermarmi sui magnifici crocefissi, autentici capolavori di arte religiosa, e di guardare le braccia di Cristo distese sulla croce. E ogni volta mi convinco che quelle siano le braccia che ogni autentico cristiano deve avere, inchiodate sui più profondi valori evangelici. Quelli improntati sulla pratica del Dio accogliente. Il crocifisso non deve essere uno strumento di chiusura, di separazione. Ha ragione lo storico Sergio Luzzatto nel suo libro “Il crocifisso di Stato”, dove scrive: “… nulla impedisce ai credenti di appendere il segno di tale annuncio (n.d.r. futuro della Salvezza) alle pareti della propria casa, senza imporlo altrove ai non cristiani e ai non credenti. Mentre il muro bianco delle nostre scuole potrebbe essere arredato con simboli di ciò che unisce, mescola, accomuna, anziché di ciò che divide, separa, discrimina.”. Luzzatto critica il pensiero di Natalia Ginsburg. La grande scrittrice, più di venti anni fa, era intervenuta nel merito di una questione civile sollevata da una professoressa di Cuneo, Maria Vittoria Migliano, che aveva richiesto al preside di rimuovere da tutte le aule quel simbolo religioso, in obbedienza alla lettera e allo spirito del nuovo Concordato. Così aveva affermato in un suo articolo, intitolato “Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano”, pubblicato nell’Unità del 22 marzo 1988: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro…” Non voglio entrare nel merito della querelle. Semplicemente faccio mio il motto evangelico: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” A me interessa, soprattutto, l’enfasi politica che si è fatta da parte di alcuni autorevoli esponenti del governo e non, dopo la sentenza del 18 marzo da parte della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti Umani, che ha posto fine alla controversia sollevata da una signora finlandese contro lo Stato italiano sull’esposizione del crocifisso nell’aula di una scuola pubblica. Questa sentenza, in contrasto con la precedente, ha accolto in pratica il ricorso del governo italiano, stabilendo che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non viola di fatto il diritto dei genitori a garantire ai propri figli un’educazione conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche. Il crocifisso è, insomma, secondo questa sentenza, “un simbolo essenzialmente passivo”, in quanto non costituisce un elemento di indottrinamento e di proselitismo. Vale la pena entrare nel dettaglio delle dichiarazioni di coloro che hanno intonato i loro peana di vittoria all’uscita della sentenza. Per il leader del Carroccio, Umberto Bossi, la prima sentenza della Corte Europea, che imponeva di togliere il crocifisso dalle classi, era una “str…” (sic). Chissà come ha gioito ora che in Europa c’è stata un’inversione a 360 gradi rispetto al giudizio precedente! Sappiamo che“la Lega è il partito non delle metropoli secolarizzate, ma del contado. E il contado sono i campanili. Noi siamo con la pancia della Chiesa”, come ha dichiarato una volta Giuseppe Baiocchi, vecchio direttore della “Padania”. Fatto salvo, però, che la Chiesa, magari nella voce dell’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, naturalmente non osi parlare di tolleranza e accoglienza cristiana, di rispetto della persona umana, e non si azzardi ad auspicare l’eventuale costruzione di nuove moschee per il culto islamico. In nome della “pancia della Chiesa” e della difesa del crocifisso in Europa, infatti, agli stranieri provenienti dal Nord Africa in fiamme, con le buone maniere cristiane, è meglio sparare (sic Castelli, autorevole leghista). Un altro buon esempio di “pietas” cristiana ci viene da un’altra affermazione, pronunciata in questo caso da un consigliere provinciale di Treviso a commento delle politiche repressive contro l’immigrazione da parte del governo italiano: “Usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino”. Questa è insomma la sintesi dell’ideologia, così bene spiegata nel giornale “La Padania” di qualche anno fa (pensiero rimasto pressoché immutato): “Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Sbatteteli fuori questi maledetti!”. Lasciamo da parte il florilegio del pensiero razzista pronunciato dalla pancia identitaria cristiana della Lega. Borghezio docet. Un’ultima riflessione mi preme fare. La trascrivo in punta di penna per non turbare la sensibilità religiosa di qualche autentico buon cristiano. Il primo maggio ci sarà la beatificazione a furor di popolo di Giovanni Paolo II (“gigante di Dio”). A tale proposito, a me piace ricordare un’altra figura religiosa, Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso il 24 marzo 1980 con una fucilata alla giugulare da parte di un sicario nella sua Chiesa, durante l’offertorio della messa. Tra i due, Wojtyla e Romero, non corse mai buon sangue. Ci fu sempre una forte incompatibilità di vedute sul modello di Chiesa: il primo rappresentava la Chiesa tradizionale, istituzionale, preconciliare; il secondo auspicava una Chiesa viva, vicina nel nome di Cristo al mondo dei poveri e degli oppressi. Durante il suo apostolato Romero, dopo qualche titubanza, ebbe il coraggio di denunciare il governo militare, autoritario, violento e corrotto, e le ingiustizie sociali della tragedia salvadoregna. Gli omicidi di poveri contadini e di oppositori al regime, i massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra, protette e finanziate dal governo. Nella biografia del prelato salvadoregno si racconta delle molte difficoltà che incontrò prima di essere ricevuto a Roma in udienza da papa Wojtyla, a cui intendeva riportare le istanze del suo popolo perseguitato. Da parte sua il pontefice neoeletto si limitò a sollecitare l’arcivescovo a costruire una relazione migliore con il governo sanguinoso del suo paese. Credo sia giusto, fatto beato Giovanni Paolo II in modo così tempestivo, portare a termine il processo di beatificazione di Oscar Romero, iniziato nel lontano 1997. Moltissimi credenti in America Latina già venerano ‘San Romero d’America’; da laggiù, infatti, sono pervenute a Roma migliaia di firme per sollecitarne la beatificazione. Al momento richiesta inesaudita, perché - si sospetta nella Curia romana - se Romero giungesse all’apoteosi di beato, la sua figura correrebbe il rischio di essere strumentalizzata.
In conclusione, a mio modesto avviso, non basta riempire i muri e le pareti di crocifissi per avere una società più giusta e migliore. Perché, infatti, tanti mafiosi, anche essi figli di Dio, hanno in una mano la pistola, nell’altra il crocifisso?

Continua...

I libri rivelano i pori sulla faccia della vita. Per questo sono odiati e temuti

Stefano Rizzo, vicesindaco di None, ha finalmente coronato il suo sogno: dare una nuova biblioteca a None. C’è voluto parecchio tempo, tra intoppi burocratici, fallimenti, patto di stabilità e tanto altro ancora. Stefano, con la tenacia che lo contraddistingue, non ha mai mollato e adesso può legittimamente condividere con la collettività l’orgoglio di quella che è stata chiamata “casa della cultura”(è un nome che mi piace, sa di tempi antichi, quando la cultura non la si mangiava, bensì la si divorava, anche tra gli operai). Così adesso al centro del paese c’è un gioiello, una specie di cuore pulsante, che veramente può irrorare le menti di linfa vitale. Qualcuno ha detto che là dove esiste una biblioteca si forma una forte aggregazione sociale e la società che ne deriva è senz’altro migliore. è vero, purché d’ora in avanti si propagandi il verbo della cultura, che forse, come dice il ministro dei soldi, non si mangia, ma certamente rende i cittadini liberi e non sudditi asserviti ad una voce sola. None può veramente considerarsi fortunata in questa pianura afosa d’estate e uggiosa d’inverno. Un cinema e una biblioteca, moderna e funzionale. “La cultura non è un lusso, è una necessità”, scrive lo scrittore cinese Gao Xingjian ne: - La montagna dell’anima - , 1989.
Necessaria perché, non desistendo, si può finalmente uscire da questi anni limacciosi. Si può respirare un’aria più pulita, un’aria di nuova primavera. Non soltanto metaforicamente. Che qualcosa si muova è stato dimostrato tra l’altro dalle centinaia di cittadini nonesi che, una sera di giugno, sotto la pioggia battente, si sono riversati per le strade del centro, non per festeggiare lo scudetto o la promozione della propria squadra, non in ragione di un’isterica azione di massa, ma per dimostrare la propria totale contrarietà rispetto ad una presunta modernità ammorbante. Meglio due, tre biblioteche, che una centrale tenebrosamente inquinante per i suoi miasmi mefitici. I libri alimentano le nostre utopie. Non quelle legate alla costruzione dell’uomo nuovo che tante tragedie hanno alimentato nel secolo breve, il Novecento. I libri nutrono le utopie migliori con tutta la loro energia pacificamente devastante. Là dove il dissenso è proibito, è vietato leggere liberamente. La cultura fa paura. La gioventùà nazista, intossicata di odio e fanatismo, nella sua più bieca simbologia, era mercoledì 10 maggio 1933, sulla Opernplatz a Berlino organizzò un funesto rogo delle opere di autori ebrei e, dal 12 aprile al 10 maggio del 1933, aveva innestato alacremente e sistematicamente roghi, non solo a Berlino, ma in ogni città universitaria della Germania. La stessa cosa accadeva in Urss, dove, anche se i libri non venivano bruciati, era tassativamente probito leggere qualsiasi opera distonica rispetto alla cultura dominante e pervasiva del comunismo. Ne sono testimone io, che durante gli ultimi rantoli dell’agonia sovietica, ho trascorso in più occasioni brevi periodi nel cuore dell’impero. Poteva capitare che, mentre passeggiavi lungo qualche strada di periferia, d’improvviso ti si squarciasse allo sguardo una scena, come quella che può accadere in qualche mercato nostrano, quando un venditore straniero ti spariglia alla svelta su un telo le proprie merci taroccate, prima del sopraggiungere di qualche vigile furioso. Ebbene anche là, sotto i cieli baltici, giovani partigiani dei libri aprivano con mosse svelte un tavolino pieghevole, su cui predisponevano alla meglio la loro merce proibita, estratta da una sacca rigonfia del respiro della cultura libera. Potevano essere vecchie edizioni delle opere di Nikolaj Gumilev, fucilato nel 1921 per attività controrivoluzionaria, Anna Achmatova, caduta in disgrazia, Osip Mandel’stam, ingoiato dal buco nero del gulag. Magari erano libri stampati clandestinamente. Suppongo. Avevi il tempo di sfogliare qualche pagina prima dell’arrivo di qualche milizioniere che faceva letteralmente saltare il banco.
“Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive”.
è una citazione da “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, che descrive una società senza libri, dove, pur di non disperdere la memoria degli stessi, alcuni sovversivi custodiscono a doppia mandata nelle proprie menti le opere più importanti. Ce lo auguriamo che non accada mai di vivere in una società senza libri!
Continua...

Metafore

C’è un grande serpente nero, velenoso come l’aspide di Cleopatra, che attraversa la pianura padana. Sta insinuandosi piano piano con la sua apparente immobilità, tra le rive di città tristi, a mordere il petto del nostro povero paese.
Mi riferisco alle tonnellate di petrolio e gasolio combustibile che mani scellerate, aprendo le cisterne di una raffineria lombarda, hanno fatto sì che si riversassero nel fiume Lambro, intossicando luoghi e persone di miasmi maleodoranti e mefitici.
“Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo”. Così Pasolini (inizio anni ‘70), prima di morire, preannunciava la scrittura di un nuovo romanzo, dal titolo emblematico di “Petrolio”, pubblicato postumo e rimasto purtroppo incompiuto.
Il fiume, nero e tossico (per l’ingordigia degli speculatori), è una metafora (me ne scuso con chi è turbato e irritato dall’uso di metafore) della nostra società decadente. è come un tentatore subdolo e ancestrale. Bene raffigura il nostro mondo contemporaneo, che si consuma tra le risate un po’ isteriche di chi intona le sue sarabande sul cratere di un vulcano pronto ad esplodere.
Nonostante tutto, noi seguitiamo irrimediabilmente ad attendere il ritorno di qualcosa di buono, di giovane e gentile.
Continua...

Il senso della comunità

Il giornale è apertamente schierato contro l’insediamento della centrale a None. Da qualche mese sta seguendo con attenzione gli sviluppi della situazione – speriamo senza annoiare -, in modo da fornire ai cittadini le informazioni utili per capire gli sviluppi della vicenda.
Ultime novità: la Provincia ha autorizzato l’installazione della centrale nel sito della Fiat; l’amministrazione comunale, maggioranza e minoranza insieme (questa è una buona notizia!), ha deciso di adire alla vie legali per fare ricorso al Tar; il comitato “Ambiente, Energia e Territorio”, seguendo coerentemente il proprio cammino, ha adottato la campagna del lenzuolo in ogni balcone, su ispirazione del compianto Fernando Giarrusso, che già l’aveva utilizzata in precedenti battaglie ecologiste. Detto tutto questo, mi permetto di fare una riflessione lusinghiera. La centrale a biomasse, con tutti i problemi che la sua installazione comporta, sta mettendo in luce un aspetto assolutamente positivo. Si va concretizzando, infatti, una di quelle rare occasioni in cui la comunità si muove nella stessa direzione. Ogni cittadino è arrivato alla consapevolezza dell’esistenza del problema con i suoi tempi di elaborazione neuronale e intellettuale. C’è chi ha colto immediatamente la criticità del progetto e ha organizzato le sue forme di protesta, c’è chi ha impiegato più tempo, prima di vedere con chiarezza, dopo avere setacciato le idee e averle ridefinite, la sostanza della questione.
C’è stata, insomma, quella che possiamo definire magia della contaminazione. Molti si sono spogliati delle loro casacche ideologiche, hanno rinunciato al proprio narcisismo, hanno accantonato idiosincrasie personali, per schierarsi dalla medesima parte. Contro una decisone che semplicemente poco ha che fare col buonsenso; contro chi spudoratamente afferma che il progetto della centrale ha l’obiettivo di migliorare la qualità della vita nel rispetto dell’ambiente e della salute dei cittadini. Il riferimento è anzitutto a coloro che finalizzano il proprio pensare al profitto, poi ai sodali che li assecondano, non si capisce mai bene a che pro. C’è un bisogno primario ed è quello della tutela della salute dei cittadini. Non bisogna mai dimenticarlo. E l’installazione della centrale non garantisce questo diritto. Da quello che sappiamo leggi sulle tematiche ambientali ve ne sono in grande quantità, ma spesso tali provvedimenti sono condizionati, e se non, talvolta polverizzati, da chi persegue i propri guadagni nella sola logica del profitto. Niklas Luhmann, filosofo tedesco del diritto, sostiene che la legge non è solo determinata tramite una decisione, ma acquista il suo valore anche in forza d’una decisione. Di conseguenza essa è contingente, cioè legata alla necessità, ma anche mutabile, a seconda del variare delle necessità. Le leggi insomma possono cambiare. Nella prospettiva di tale pensiero, anche il Consiglio Comunale di una cittadina può osare di più e fare proprie le istanze dei suoi cittadini, in merito alla tutela della salute, realizzando degli atti legislativi coraggiosi.
Continua...

sabato 30 gennaio 2010

In queste lunghe e grigie giornate invernali

Saranno queste lunghe e grigie giornate invernali, ma a None non si vive più tanto bene. Tira una pessima aria, fredda e limacciosa. I rapporti umani tendono a deteriorarsi facilmente, degradando come formaggi inaciditi, alla prima folata di vento. Abbiamo vissuto una campagna elettorale per le amministrative molto logorante, in particolare all’interno del vecchio e ormai sepolto schieramento di centrosinistra, i cui strascichi perdurano tuttora con la stessa identica pervicacia. Basta andare su uno dei blog, tra i più visitati da parte degli internauti del nostro paese, per assaggiarne in alcuni momenti tutto il livore e l’astio. Io stesso ne sono stato un assiduo frequentatore, talvolta con interventi a zanne affilate contro il mio avversario di turno. Dopo le ultime scorrerie, però, ho deciso di sventolare la bandiera bianca e di ritirarmi nella mia personale Tortuga, come facevano i bucanieri nel Seicento.
Ho dei dubbi che questo sia il modo di confrontarsi e dialogare. In fondo, a ben vedere, non siamo più capaci di predisporci all’ascolto dell’altro. Tendiamo sempre a sovrapporci all’altrui voce e a urlare più forte di qualsivoglia interlocutore. Insomma abbiamo fatto nostre le brutte abitudini e la maleducazione di certi programmi televisivi, dove onnipresenti e onniscienti ospiti discernono di tutto il sapere del mondo. E i peggiori esempi di questa forma di conversazione pubblica sono offerti proprio dagli esponenti della politica.
Già la politica, e voglio fare riferimento soltanto al nostro microcosmo (lasciando perdere il livello nazionale), che nell’accezione più classica dovrebbe essere l’arte di realizzare modi di convivenza civile, niente altro sta rivelando se non la sua faccia peggiore, cupa livida e rancorosa, in nome di quella che qualche illustre e attento osservatore ha definito la “cultura della rissa”.
Ci compiacciamo, in nome del nostro effimero narcisismo, di sfoderare la lingua al sibilo di “mo’ ti sistemo io!”: l’importante alla fine è riuscire a restare con l’ultima parola ancora umida e grondante veleno sul fiore delle labbra, invece di strozzarla nel fondo della gola con tutto il suo umore sinistro.
Gira e rigira la giostra delle amicizie: c’è chi scende, c’è chi sale. Gli amici di un tempo, se t’incontrano per strada, adesso abbassano lo sguardo o si voltano dall’altra parte, evitando il contatto oculare, che dovrebbe essere uno dei segnali non verbali più significativi per stabilire delle relazioni positive con gli altri. Quelli che invece erano i nemici di un tempo adesso fanno comunella con i tuoi vecchi amici.
Qualcuno direbbe “non c’è più religione!”. Non è così. Semplicemente tira una brutta aria in queste lunghe e grigie giornate invernali. (GC)
Continua...